Dalla miseria alle torture in Libia, il dramma di Salam

Ci sono storie che facciamo fatica ad ascoltare, ma proprio perché sono così difficili da mandare giù devono essere raccontate.
A Salam non piace essere chiamato con il suo vero nome. Preferisce Abdul, un nome che gli è sempre piaciuto e che per qualche istante, quando si presenta, lo fa sentire quasi un’altra persona. Ed è bello sentirsi qualcun altro quando il tuo passato non ti piace, quando fai fatica a ricordare e a spiegare agli altri anche solo da dove provieni. Quella di Salam è una storia che aggroviglia lo stomaco: è nato in Sierra Leone, in un piccolo villaggio del nord che a mala pena è segnato sulla cartina. Suo padre non lo ricorda nemmeno, se ne è andato quando era ancora molto piccolo e nessuno gli ha mai saputo raccontare cosa sia successo. C’è chi gli ha raccontato che è morto in guerra, chi per una brutta malattia, chi invece sostiene che sia ancora vivo, chiuso in chissà quale prigione. Fin da piccolissimo Salam ha dovuto fare i conti con le bugie e con la miseria. Ha frequentato pochi anni di scuola e poi, quando ancora non avevo imparato bene a scrivere, ha dovuto abbandonarla insieme alla sorella perché la madre si era riempita di debiti. Poi il dramma, come se la vita non gli avesse già regalato dispiaceri: un’epidemia di Ebola gli ha strappato anche le due persone che gli erano rimaste, rimanendo solo, ancora bambino, senza una casa e qualcuno con cui stare. Fino a due anni fa ha vissuto in strada, mangiando ciò che trovava per terra o nella spazzatura. Ha vissuto solo per più di dieci anni, scambiando qualche parola solo con il suo amico Mohamed.

“In Sierra Leone riesci a trovare lavoro solo se sei raccomandato – ha spiegato Salam – Ti fanno lavorare solo se tuo padre conosce qualcuno di importante e io ero un ragazzino senza famiglia, nessuno ha mai potuto parlare per me”.
Poi Mohamed un giorno gli ha detto: “Andiamo in Libia, so che da là partono grandi barche che portano in posti bellissimi dove c’è lavoro”.
Così Salam è partito insieme al suo amico, portando con sé le poche cose che aveva racimolato in tutti quelli anni vissuti in strada. Ma una volta in Libia, dopo un viaggio lunghissimo, la vita si è divertita a pugnalarlo ancora: “Non avevo né documenti né soldi – spiega Salam – e allora mi hanno messo in prigione. Se in Libia non hai soldi è un grande problema. Sono stato rinchiuso lì dentro per cinque mesi, mesi interminabili dove ogni giorno venivo torturato dalla polizia”.
Salam non riesce a trovare le parole, non sa tradurre in italiano ciò che vuole raccontare, allora si scopre le braccia e mostra i segni. Pelle coperta da cicatrici profonde, un corpo usato come un foglio su cui disegnare, un corpo su cui dipingere per ammazzare la noia. Solo che al posto di matita e pennello hanno usato una lama affilata.
Salam si ricompone: “Dopo cinque mesi finalmente sono uscito e ho potuto prendere quella barca. Sono arrivato in Calabria qualche giorno dopo, avendo visto trentacinque persone galleggiare in acqua. Ma ormai avevo visto di tutto. In Calabria sono salito su un pullman della polizia che mi ha portato a Lucca, alla tensostruttura della Croce Rossa. Adesso vivo a Capannori con altri ragazzi… ma non mi trovo bene, anche se finalmente posso mangiare cose vere. Sto sempre per conto mio chiuso in casa, anche perché non riesco a trovare lavoro. Qualsiasi lavoro andrebbe bene per me, ma non c’è nulla nemmeno qui. A volte esco a fare una passeggiata, ma non mi piace stare tra la gente. Una volta ho chiesto informazioni perché non conoscevo la strada, la gente si è allontanata perché aveva paura di me. La gente ha paura di me perché non mi conosce – dice ingenuamente – Al supermercato una volta ho battuto senza volere il braccio contro un signore, ho chiesto scusa e mi ha offeso guardandomi male. Gli avevo solo toccato il braccio”.
Salam il giorno di Natale festeggia il compleanno, quest’anno compierà 23 anni. Una data che sembra quasi una presa in giro, l’ennesimo schiaffo della vita. “La mia famiglia era musulmana – racconta – ma io non credo in nessun dio. Se fosse veramente esistito, se lassù ci fosse veramente qualcuno, non mi avrebbe fatto vivere così. Ho visto fare cose bruttissime sia da cristiani che da musulmani, io non voglio essere come loro”.
L’unico ricordo bello che ha Salam è il mare, che in Sierra Leone gli ha fatto da casa per molte notti. Il suo sogno più grande è vedere anche il nostro, quello della Toscana, “perché solo lì mi sento bene”.

Giulia Prete

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