Rosa, la donna che portava il cibo agli internati



Compitese, terra di dolore e resistenza. Un bellissimo lago incorniciato da monti e da prati pieni di margherite e un pontile in legno, proprio come quelli che si vedono nei film d’amore. E’ quasi impossibile immaginare che non molti anni fa, proprio in quel posto magico, sulle rive del lago della Gherardesca a Colle di Compito, si sia consumata una delle pagine più orrende della nostra storia. Già, perché quando si parla di campi di concentramento ci viene subito da pensare alla Germania, alla Polonia, a quei posti così lontani e a quei nomi così difficili da pronunciare. Molti però non sanno che uno di quei campi, seppur molto più piccolo, era proprio qui, a pochi minuti dalla città, sotto lo sguardo dell’arroccato borgo di Castelvecchio.
Un campo nazifascista in mezzo al padule e ai boschi dove nessuno avrebbe potuto sentire, dove nessuno avrebbe potuto vedere. Era il P.G. numero 60, e dal 1941 fino a poco prima della fine della guerra ospitò più di 3000 uomini: Il campo fu costruito inizialmente per prigionieri inglesi, ma poi, come di solito accadeva all’epoca in campi del genere, quelle margherite furono sporcate anche dal sangue di molti ebrei, civili che si opponevano al partito, politici, sudditi di paesi nemici. Prigionieri da ogni parte del mondo, addirittura dal Sudafrica, a quanto si legge da un vecchio documento d’archivio. Tanti dialetti e lingue diverse, prima in tenda e poi nelle baracche, stipati tutti insieme in quello spazio ristretto tra umidità e zanzare, proprio a due passi dalla linea ferroviaria Lucca-Pontedera. Quella tratta un tempo metteva in collegamento tutta la lucchesia con la fabbrica della Piaggio, ma anche con i cannoni, le caserme, quei campi che facevano ancora più paura. E sembra incredibile ma l’odore del ferro arrugginito di quelle rotaie a volte quando tira vento si sente ancora, nonostante gli anni, passeggiando su quei prati che hanno tante storie tristi da raccontare. Ma nonostante il posto nascosto sulle rive del lago la gente in paese sapeva, e sapeva tutto.
“Li avevano messi al Pollino, noi quel posto lo chiamavamo così – spiega Rosa Andreini che all’epoca aveva poco più di vent’anni –. Poverini, certo. Io e le mie amiche si partiva da casa con i fichi e le mele nelle tasche e glieli portavamo. Arrivavamo proprio accanto al filo spinato e poi glieli buttavamo aldilà della recinzione. Avevano fame, proprio come noi. Erano tempi brutti quelli, non avevamo da mangiare nemmeno per noi, ma il dispiacere era più forte…gli davamo quel che si poteva, eravamo solo ragazzine”.
La signora Rosa, classe 1920, abita ancora a Colle di Compito e dalla finestra della cucina riesce ancora a vedere la casa in cui abitava da bambina. Un paese, quello, che quando nel ’43 si vide circondato dalle truppe tedesche ebbe paura, ma non mollò mai.
“Avevamo nascosto tutte le cose preziose dentro a delle scatole, tra cui il corredo di mia sorella – racconta la signora Rosa – e poi le avevamo sotterrate nei poggi. Quando i tedeschi arrivarono in paese non trovarono niente, rubarono solo il bestiame perché avevano fame anche loro. Li avevamo fregati!”.
Ma non tutti con loro riuscirono ad avere la meglio. Quando nel settembre di quell’anno al campo arrivarono i nazisti gli ufficiali Ss chiesero di avere i prigionieri: gli italiani si rifiutarono e il comandante del campo, il capitano e un soldato furono trucidati senza pietà, uccisi sulla riva di quel bellissimo lago. I loro nomi sono scritti su una lapide che circa da due anni ormai cerca di non far dimenticare a nessuno ciò che è successo, situata in quella che adesso si chiama “via della memoria”. Molti prigionieri dopo quel fatto riuscirono a scappare, forse spinti dalle atrocità a cui avevano assistito, e furono aiutati dagli abitanti del paese, che saccheggiarono anche ciò che rimaneva del campo. Successivamente quelle baracche, che adesso non esistono più, furono riadattate e utilizzate dalla Repubblica Sociale Italiana.
“Con le cassette di legno che riuscirono a rubare dal campo mia suocera fece l’armadio per la camera da letto – racconta ancora Rosa – I prigionieri riuscirono a scappare e si nascosero nei rifugi nei boschi e qua, in paese. Anche la mia amica ne ospitava uno e suo padre ogni giorno ci diceva ‘Ma portatelo a giro questo ragazzo! Non può stare sempre chiuso in casa…’ e noi allora lo portavamo in piazza o in giro per strada. Eravamo due ragazzette che andavano a spasso con un uomo, fino ad allora ci era sempre stato vietato. Gli abbiamo dato da mangiare per un po’ di tempo, poi se ne sono andati tutti. Non abbiamo avuto più notizie”.
E fa rabbia il fatto che un paese che un tempo è stato così caritatevole e protagonista di resistenza negli ultimi anni sia stato invece, insieme alle altre zone del compitese, nominato quasi soltanto per episodi negativi. Zone che un tempo hanno combattuto il nazifascismo anche, come ricorda pure la signora Andreini, con un parroco molto speciale: Don Aldo Mei, nato e cresciuto nella vicina Ruota, che fu ucciso sotto le mura dai tedeschi dopo che scoprirono che dava aiuto non solo a famiglie ebree ma anche a disertori del regime fascista. 28 colpi di fucile solo per aver dato aiuto a degli innocenti, colpevoli solo di essere nati nell’epoca sbagliata, nel luogo sbagliato.
Adesso là dove c’erano quelle baracche ci sono fiori e tante farfalle ma dimenticare il passato, soprattutto in questa giornata particolare del 25 aprile, è praticamente impossibile. Sperando che quello spirito di resistenza perso negli anni in questi bellissimi luoghi prima o poi torni, magari anche solo per rispetto alla signora Rosa, che per raccontare il poco che la sua mente anziana ricorda ancora si è riempita di orgoglio ed emozionata come una bambina.
Giulia Prete