Festival di Venezia sotto tono, convince solo il film di Oppenheimer

29 agosto 2014 | 14:33
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Festival di Venezia sotto tono, convince solo il film di Oppenheimer

Non procede molto bene il Festival di Venezia. Dei film visti sinora in tutte le selezioni, sono pochi quelli degni di nota, molti quelli da dimenticare. In primo luogo, purtroppo, il titolo italiano La vita oscena, diretto da Renato De Maria e presentato nella sezione Orizzonti. La pellicola prova a raccontare la storia vera di un tossicodipendente che si redime. Il tema della droga è qualcosa di serio ma il regista sembra dimenticarsene arrivando persino a costruire sequenze offensive a causa della loro ingenua superficialità. Sempre in questa sezione è stato presentato l’ultimo documentario di Urlich Seidl, Im Keller, che si propone di mostrare cosa nascondono le cantine austriache. Lo spunto è molto interessante, ma il film presto perde la bussola non solo a livello contenutistico – quasi subito le cantine vengono messe in secondo piano per portare davanti la macchina da presa la goffaggine (spontanea?) dei personaggi protagonisti – ma anche a livello stilistico (diversi gli errori di montaggio presenti nella pellicola).

Altro documentario, ma questa volta presentato durante le Giornate degli Autori, è l’ultimo lavoro di Alex De La Iglesia, intitolato Messi. Il film si ripropone di raccontare l’ascesa del calciatore più famoso del mondo ma non racconta nulla di curioso o di nascosto sul giocatore, e assume le sembianze di un’opera pubblicitaria che eleva l’uomo allo stato di Santo, piuttosto che quelle di un genuino e curioso lavoro documentaristico. Nel concorso il livello delle pellicole è migliore. Convince, anche se con qualche riserva, il film La rancon de la gloire, che racconta le vicissitudini dei due uomini che nel 1977, poco dopo la morte di Charlie Chaplin, rubarono la tomba dell’artista per poi chiedere un riscatto alla famiglia. Invece convince pienamente e lascia il segno l’ultimo lavoro di Joshua Oppenheimer che, dopo aver sorpreso (in maniera positiva) e scandalizzato le platee di tutto il mondo con The Act of Killing, torna sullo stesso tema dirigendo il documentario The Look of Silence. Il film si apre in maniera didascalica per dare le giuste coordinate allo spettatore: Indonesia, 1965. Gli uomini al potere (ancora oggi a capo dello Stato) compiono uno sterminio di massa (le cifre stimate ruotano attorno al milione) anti comunista. Uno dei tanti genocidi clamorosamente poco ricordati della Storia. Con The Act of Killing, il regista provò a portare sotto i riflettori i fatti andando ad intervistare i diretti responsabili. In The Look of Silence, Oppenheimer gira la macchina da presa di 180 gradi, prendendo il punto di vista di chi il genocidio l’ha subito, anche se in maniera indiretta. Infatti il protagonista del film è un oculista che ha perso il fratello proprio a causa di queste esecuzioni. Nell’aiutare i suoi pazienti a mettere a fuoco la vista, il film cerca di mettere a fuoco (frequenti le inquadrature strette attorno alla montatura degli occhiali medici) una realtà ancora troppo nascosta e sconosciuta. Il confronto con il titolo precedente risulta quasi obbligato perchè sono troppi i richiami e i legami che le due pellicole condividono. Ma sotto la superficie, i lavori sono piuttosto diversi tra loro. Stilisticamente parlando, The Look of Silence si avvale di una regia più canonica e “classica” (forse un po’ troppo fredda e studiata in alcuni momenti), di sicuro profondamente distante dalle immagini più grezze e spontanee di The Act of killing. Dal punto di vista dei contenuti invece, The Act of Killing (che dura quasi il doppio) informa lo spettatore su diverse questioni che in The Look of Silence sono date quasi per risapute. La funzione meramente istruttiva viene leggermente meno, ma è moralmente parlando che il film lascia il segno più profondo nello spettatore. Oppenheimer sembra soddisfatto del suo titolo precedente e vuole cambiare rotta, insistere nell’indagine dell’essere umano. Perché queste persone sono ancora al governo o non sono mai state imputate? Come si può vivere senza un minimo peso sulla coscienza dopo aver compiuto tali azioni? Perché il fratello di una vittima, agli occhi di ogni intervistato è visto come un emarginato da trascurare? Sempre rispettando la neutralità dello sguardo, il regista realizza dunque un film sicuramente riuscito, anche se a tratti lievemente altalenante, ripetitivo e mai così spiazzante come fu il precedente, ma che lascia il segno di un’umanità dilaniata e dilaniante su cui riflettere a lungo. A breve verranno presentati l’ultmio film del veterano Peter Bogdanovich, intitolato She’s Funny That Way, e l’opera Anime Nere, dell’italiano Francesco Munzi. Sempre oggi (29 agosto) è stato consegnato il leone d’oro alla carriera a Frederick Wiseman, documentarista tra i migliori al mondo, attivo tutt’oggi dopo una lunghissima carriera iniziata negli anni Sessanta e assai prolifica (circa un film all’anno).

Simone Soranna