“I nostri ragazzi” centra dramma incomunicabilità

7 settembre 2014 | 09:08
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“I nostri ragazzi” centra dramma incomunicabilità

Uno psicodramma familiare che è anche un thriller che è in fondo un grande caso di cronaca nera di cui la settima arte ci fa vedere i retroscena intimi. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia giovedì (4 settembre) e nelle sale da venerdì, I nostri ragazzi, diretto da Ivano De Matteo (Gli equilibristi, La bella gente) e liberamente ispirato al romanzo La cena di Hermann Koch, racconta la rottura dell’equilibrio di due famiglie imparentate della Roma bene dopo un’oscura vicenda che coinvolge i rispettivi figli. Grazie ad un cast magistrale (Alessandro Gassman, Luigi Lo Cascio, Vittoria Mezzogiorno e Barbara Bobulova) il film mette in scena, per sottrazioni ed ellissi narrative l’incomunicabilità tra genitori e figli, le difficoltà dell’educazione, la solitudine nella quale i giovani di oggi si auto costringono, complici la tecnologia e l’assenza di valori e punti di riferimento forti, che benessere economico e cultura (i genitori sono avvocati, medici, storici dell’arte) non riescono ad arginare. Un’analisi capillare della società borghese, dunque, ma senza toni moraleggianti, senza giudizi imperanti, condotta solo attraverso la lucida descrizione dei fatti, con piglio quasi giornalistico (il clima di inchiesta è rafforzato dagli inserti del programma Chi l’ha visto?, con Federica Sciarelli nei panni di se stessa) alla ricerca di una verità difficile da ammettere.

Un film sulla violenza, che si apre e si chiude in nome di questa, ma che nella parte centrale si fonda sui silenzi, sul non detto, eludendo i dialoghi apparentemente fondamentali – sui quali altre pellicole indugerebbero – e si sofferma invece su particolari e immagini apparentemente insignificanti, salvo poi ricongiungersi, come in un gioco di scatole cinesi, nel tragico epilogo. In aiuto del significato della storia viene il significante della forma artistica, attraverso ossessionanti immagini di scale – molto hitchcockiane -, inquadrature fuori fuoco, rumori del quotidiano “fuori scena”, che generano nello spettatore inquietudine e suspense fino alla scoperta della verità. Ma la verità che il regista, e di conseguenza lo spettatore, ricerca non è quella della risoluzione del caso – fin troppo evidente, in fondo il film non è un giallo, non si dà la caccia al colpevole -, bensì quella nascosta nelle pieghe dell’animo umano. A cosa siamo disposti pur di salvare nido e apparenze? Quanto resistono gli ideali sui quali fondiamo la nostra esistenza quando il dramma ci coinvolge direttamente? Qual è il confine tra deontologie professionali (il medico e l’avvocato devono fare i conti anche con queste), etica e istinto di sopravvivenza? Le domande restano aperte perché il film non le chiude, o forse lo fa anche troppo bene, ma con una conclusione inaspettata che pone nuovi interrogativi. Perché le premesse iniziali vengono drasticamente ribaltate, i personaggi si trasformano inaspettatamente e lo spettatore perde la bussola insieme a loro. Il titolo, azzeccatissimo, – e non è cosa scontata – ci ricorda che anche noi siamo parte in causa e fa appello al nostro senso di responsabilità. Anche se non siamo genitori, anche se i figli, quei figli, non ci appartengono propriamente, “i nostri ragazzi” sono in fondo “ragazzi nostri”.

Alice Baccini