Michele Bravi: ‘Il mio libro doveva essere una canzone’






Moltissime le ragazze e i ragazzi in fila questa sera (1 novembre) nella chiesa di San Francesco per farsi autografare una copia di Nella vita degli altri, il primo romanzo di Michele Bravi. Cantante, youtuber e adesso anche scrittore Mondadori, a soli 24 anni il giovane talento vincitore della settima edizione di X-Factor è stato ospite di Lucca Comics & Games per una lunga intervista condotta da Marco Villa. E non si è risparmiato nel raccontarsi in questa sua nuova veste che lo sta portando in giro per le libreria di tutta Italia. “Questa storia sarebbe dovuta essere una canzone e invece è diventata un romanzo. Tutto gira intorno alla storia di una palazzina. Una sera – dice Michele Bravi – le vite di cinque persone che vengono sconvolte dalla pazzia di un vecchio panettiere, ossessionato dalla sua immagine, che armato le prende in ostaggio per indurle a vuotare il sacco e rivelare chi di loro ha rubato il suo riflesso”.
Un romanzo dal plot avvincente, definito “cattivissimo” da Marco Villa, che sorprende per la violenza di alcuni passaggi: insomma, un libro che non ti aspetteresti da Michele Bravi e dalla sua faccia pulita. “I personaggi che tratteggio sono tutti un po’ schizzati: mentre scrivo – racconta l’autore – mi accorgo che le caratteristiche che nella mia mente appartengono a una persona ben definita, una volta messe nere su bianco diventano universali e tutti possono leggerci un pezzo della propria esperienza reale: col lettore, ma anche con chi ascolta le tue canzoni, si crea sempre un duetto silenzioso”. E la percezione del destinatario del messaggio artistico, soprattutto nel messaggio letterario, è qualcosa che stupisce Bravi: “Il libro è un atto di solitudine. Mi spiazza che un posto che ho abitato per quasi due anni, che ho sentito mio, ora che è diventato un libro venga vissuto in modo diverso dai suoi lettori”. Così come avviene per i personaggi che percorrono la storia: “Le persone empatizzano con loro: per costruirli – spiega Bravi – ho compiuto una ricerca psicologica, ho fatto un catalogo di caratteri seguendo Jung. A ciascun personaggio ho attaccato addosso un pezzo di quello che andrà a comporre il ritratto del panettiere pazzo che li tiene ostaggio”.
Bravi si è quindi lasciato andare a una riflessione sulla generazione che rappresenta, quella dei nativi digitali: “Siamo nati con i social, siamo figli dell’immagine e quelli più obbligati a giudicarci, a vedersi in una fotografia. E quindi – commenta – siamo i più inclini alla paranoia. La critica è connaturata in noi”. “Mi trovo spesso a dover giustificare il fatto che io esisto nel web, nella musica, nell’editoria: una molteplicità di interessi, di inclinazioni, forse faccio tutto e male – scherza – ma ancora oggi non so spiegare il perché senta il bisogno di esprimermi su così tanti fronti. Tuttavia sono lontano dall’immagine simobolica dell’artista contemplativo. Nel mio quotidiano sono un ragazzo normalissimo, che come tutti lava i piatti, studia, esce con gli amici. La verità – dice ancora Bravi – è che una canzone o un libro sono come un esame universitario: mentre lo dai sei posato e serio, ma mentre studiavi quelle cose magari eri sbracato sul divano e ti ingozzavi di patatine e bibite”. Di una cosa è certo, Michele Bravi: che le canzoni, come i libri, abbiano un loro tempo di gestazione: “È necessario fare chiarezza dentro di sé, far crescere e risolvere le situazioni che si stanno vivendo: quando chiudi il cassetto è il momento di scrivere, perché la storia è pronta per vivere il suo arco romantico, per avere un inizio, un punto massimo e un suo finale”. “Mentre scrivevo questo romanzo – confessa Bravi al pubblico di Lucca Comics – ascoltavo ossessivamente la musica di Brian Eno e Ludovico Einaudi. Ho bisogno di frequenze immaginifiche per sintonizzarmi con la mia ispirazione. Se questo libro fosse diventato una canzone, il refrein sarebbe stato: c’è sempre qualcosa che ci riguarda nella vita degli altri”. Sono soli, i personaggi di Bravi. E questo colpisce: “Eppure potrebbero non esserlo, ma non capiscono quale sia il significato della parola empatia. Se si aiutassero, per esempio, nella contingenza che vivono del vecchio pazzo che punta contro di loro un’arma, l’esito non sarebbe quello. E invece non riescono a capire quel qualcosa che fa parte delle vite degli altri in ciascuno di noi, non riescono a vedere oltre il proprio naso”.
Elisa Tambellini