Maxievasione con società nei paradisi fiscali: tre nei guai

di Roberto Salotti
Un sistema gelatinoso di società fantasma, fiduciarie e false fatturazioni consentiva di nascondere in tutto o in parte al fisco i proventi delle esportazioni all’estero, risparmiando anche sulla tassazione per importanti importazioni in Italia. Un’azienda lucchese del settore manifatturiero è finita così al centro di una rete internazionale che “ripuliva” il denaro frutto dell’evasione e consentiva guadagni da capogiro ai due amministratori, entrambi sulla sessantina d’anni, indagati dalla procura della repubblica di Lucca per aver utilizzato fatture per prestazioni di servizio in tutto o in parte inesistenti. L’inchiesta è ormai chiusa e il pm Aldo Ingangi si appresta a chiedere il rinvio a giudizio.
Evasione internazionale. Un giro di fondi neri, secondo gli inquirenti, che sfruttava i paradisi fiscali, dalle Seychelles, fino a Madeira in Portogallo, e che fa ipotizzare alla guardia di finanza di Lucca che ha condotto le indagini durate una decina di mesi una base di imponibile sottratto alla tassazione che complessivamente si aggira attorno agli undici milioni di euro. Nei loro confronti è scattato un maxi sequestro per “equivalente” di 50 immobili tra terreni, fabbricati e fondi industriali – tutti in Lucchesia -, per un valore di oltre due milioni e mezzo di euro, riconducibili a soci e amministratori della società lucchese. Che pur dichiarando redditi dai 40 ai 60mila euro all’anno, ne guadagnavano, secondo le fiamme gialle, almeno 350mila.
I conti nei paradisi fiscali. Una inchiesta, che ha avuto articolazioni anche all’estero con due rogatorie in Portogallo e in Svizzera, che ha smascherato un sistema ben congegnato a cui faceva capo l’impresa lucchese, attraverso una nota società fiduciaria svizzera, con lo stesso indirizzo di quella già coinvolta in inchieste di respiro nazionale, compresa quella dello scandalo sanità in Lombardia, che ha messo nei guai l’ex presidente della Regione, Roberto Formigoni. Alcuni dei suoi vertici risultano indagati dalla magistratura elvetica per riciclaggio e sono stati sentiti anche dal sostituto procuratore di Lucca, Aldo Ingangi, che si è recato a Lugano nella fase clou dell’inchiesta, che ha ricostruito i movimenti illeciti fra società – alcune “cloni” di altre sempre riconducibili agli imprenditori lucchesi – dal 2005 al 2010. L’inchiesta ha preso il via però soltanto una decina di mesi fa, quando gli investigatori hanno puntato l’attenzione su un conto estero in Italia, riconducibile ad una società tunisina, il cui amministratore, secondo gli inquirenti, era legato a doppio filo con l’impresa manifatturiera della provincia di Lucca: cospicui prelievi di denaro in contanti e operazioni ritenute sospette hanno portato gli uomini del nucleo di polizia tributaria di Lucca, diretti dal tenente colonnello Pierfrancesco Bertini, sulla pista giusta. Sul conto, hanno appurato gli inquirenti, transitavano anche cospicui bonifici emessi dalla società lucchese finita nel mirino, che sono stati per mesi oggetto di accertamenti. Per l’accusa, almeno fino al 2009, la società tunisina sovrafatturava all’impresa lucchese, per ingenti importazioni in Italia. Il pagamento della fattura avveniva sul conto corrente passato al setaccio ma secondo la finanza soltanto il 40% dell’importo effettivamente finiva sul conto, l’altro 50% veniva restituito al committente in contanti e l’altro 10% finiva nelle tasche dell’amministratore in Tunisia.
Da qui gli investigatori hanno aperto un vero e proprio vaso di Pandora, sostenendo che dopo il 2009 erano continuati i “rapporti” fra Tunisia e Italia. Da quella data però, per l’accusa, la società africana emetteva fatture false, ovvero per operazioni inesistenti, che venivano poi pagate su un conto corrente di Madeira, in Portogallo. I soldi poi finivano ad una società che aveva lo stesso nome di quella tunisina, ma con sede nel paradiso fiscale delle Seychelles. Secondo gli inquirenti, attraverso una società fiduciaria svizzera, gli imprenditori lucchesi continuavano ad avere la disponibilità di quei fondi, perché la società era di fatto a loro stessi riconducibile. Un sistema di scatole cinesi e società fantoccio, esistenti soltanto sulla carta, sarebbe alla base, per gli inquirenti, di questo giro di maxi evasione internazionale.
E’ quello che avveniva, secondo l’accusa, con una società neozelandese, ma di fatto controllata dagli imprenditori lucchesi. Dalla Nuova Zelanda venivano emesse fatture – hanno ricostruito le fiamme gialle – per operazioni inesistenti fatte figurare come un servizio di controllo della qualità per una società indiana; prestazioni che venivano pagate sullo stesso conto a Madeira. La società indiana, per contro, sovraffatturava l’importo per il controllo di qualità alla società italiana, che in questo modo tornava in possesso del denaro.
Nel mirino della guardia di finanza è finita poi anche una società americana – sempre riconducibile, attraverso operazioni gestite per l’accusa dalla fiduciaria elvetica, ai lucchesi. Dagli Usa si emettevano ancora fatture per operazioni inesistenti, che venivano pagate su un conto corrente del Regno Unito e che poi finivano sui conti svizzeri.
I numeri dell’operazione. Undici milioni di euro di base imponibile sottratta al fisco: è soltanto uno dei numeri risultato di una attività investigativa certosina che ha smascherato il giro internazionale di evasione. Per gli inquirenti, gli imprenditori lucchesi finiti nel mirino avrebbero anche evaso l’Irap per 238.088,21 euro e non avrebbero dichiarato redditi di capitale ai fini Irpef per due milioni e 459.276,32 euro. Non solo: un milione e 712.812 euro era l’ammontare del denaro detenuto all’estero e non dichiarato, mentre i redditi personali nascosti al fisco ammonterebbero a 3.460.458 euro.
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