‘Ndrangheta, arresti e sequestri per riciclaggio

19 febbraio 2018 | 10:54
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‘Ndrangheta, arresti e sequestri per riciclaggio

Sono 14 le persone colpite da ordinanza di custodia cautelare in carcere (11) o domiciliare (3) emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze su richiesta della direzione distrettuale antimafia, ritenuti responsabili a vario titolo dei reati di associazione per delinquere, estorsione, sequestro di persona, usura, riciclaggio ed autoriciclaggio, abusiva attività finanziaria, utilizzo o emissione di fatture per operazioni false, trasferimento fraudolento di valori, aggravati del metodo mafioso. Gli uomini dei comandi provinciali dei carabinieri e della Guardia di Finanza di Firenze hanno eseguito anche sequestri di imprese, beni immobili e disponibilità finanziarie, in Italia ed all’estero. Contemporaneamente, su ordine della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, sono sono stati eseguiti ulteriori provvedimenti restrittivi e di sequestro per diverse condotte illecite, tra le quali l’associazione mafiosa.
Per l’inchiesta di Reggio Calabria il fermo ha colpito 27 persone complessivamente. 

Il filone Toscano. Sono in tutto 12 le società, 5 con sede in Italia e 7 all’estero sequestrate insieme a numerosi conti correnti bancari. In totale 18 gli indagati nell’ambito dell’inchiesta partita dalla denuncia di un imprenditore toscano vittima di usura e minacce. Il suo aguzzino, per gli inquirenti Cosma Damiano Stellitano, imprenditore calabrese di fatto domiciliato a Vinci, in provincia di Firenze, a fronte di un prestito di 30mila euro chiedeva la restituzione di somme maggiorate con interessi anche del 17% in un solo giorno.
Le investigazioni, svolte anche con l’ausilio di indagini tecniche, coordinate dal procuratore Ettore Squillace Greco (applicato alla Dda di Firenze) e, più di recente, dal sostituto procuratore Giuseppina Mione sono state condotte dal reparto operativo dei carabinieri di Firenze e, a partire dal novembre 2014, delegate anche al Gico del nucleo di polizia economico finanziaria della guardia di finanza.
La gang che faceva capo per l’accusa a Antonio Scimone faceva confluire in conti esteri intestati a società cartiere rilevanti somme di denaro da riutilizzare come prestiti di denaro contante ad imprenditori conciari toscani, questi ultimi indiziati di essere ben consapevoli della provenienza illecita del denaro e complici, secondo l’accusa, dei calabresi.
Gli imprenditori toscani, infatti (indagati anche per il reato di riciclaggio), restituivano ai loro “finanziatori” le somme di denaro ricevute in prestito, maggiorate di interessi celando la restituzione di denaro attraverso il pagamento di false fatture di acquisto di pellame, emesse da una
S.r.l con sede nel pisano e materialmente predisposte dal contabile di fiducia di Stellitano. In questo modo, gli imprenditori toscani, 3 dei quali in carcere e altri tre da stamani ai domiciliari, si finanziavano ottenendo denaro contante (da utilizzare principalmente nella retribuzione “in nero” dei dipendenti) e, annotando in contabilità le false fatture, abbattevano gli ut ili delle proprie aziende (quindi pagavano una minore imposta sul reddito delle persone giuridiche), registravano un credito Iva fittizio e, quindi, scaricavano sull’erario il “costo” del finanziamento illecitamente ottenuto. In ultima analisi, il sistema fraudolento così congeniato faceva gravare sulle casse dell’Erario il costo del denaro contante ricevuto dagli imprenditori toscani e, di converso, il profitto illecito dei calabresi. Infatti, il “prezzo” pagato dagli imprenditori toscani per il finanziamento ottenuto era, di fatto, celato sotto forma di Iva corrisposta per il pagamento delle menzionate fatture false (imposta poi portata a credito nelle liquidazioni periodiche dagli stessi imprenditori) mentre le società emittenti le fatture non hanno mai provveduto a versare l’Iva incassata.
Il filone di Reggio Calabria. Le indagini condotte dalla Dia di Reggio Calabria, sotto la direzione dei Sostituti procuratori della Dda Stefano Musolino e Francesco Tedesco e il coordinamento del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e del procuratore vicario Gaetano Calogero Paci, hanno permesso di ipotizzare l’esistenza di una banda con base a Biaco e con interessi anche in Toscana e all’estero.
Stando all’accusa al vertice c’erano Antonio Scimone, ritenuto il capo e regista delle transazioni finanziarie illecite e delle false fatturazioni, Antonio Barbaro, della Cosca Barbaro I Nigri, Bruno Nirta, della cosca Nirta Scalzone ed il figlio di quest’ultimo, Giuseppe.
Stando a quanto finora ricostruito dagli inquirenti, l’organizzazione poteva contare su un gruppo di società di comodo, definite ‘cartiere’ che venivano coinvolte in operazioni commerciali inesistenti., caratterizzate dalla formale regolarità attestata da documenti fiscali ed operazioni di pagamento rivelatesi tuttavia, all’esito delle indagini, anch’esse fittizie.
Le società avevano sede in vari paesi dell’Unione Europea (Croazia, Slovenia, Austria, Romania) e dopo non più di un paio di anni di “attività”, venivano sistematicamente trasferite nel Regno Unito e cessate. Tutto ciò, per l’accusa, era funzionale ad evitare accertamenti, anche ex post, sulla loro contabilità. In questo modo per gli inquirenti venivano finanziate attività illecite, tra cui il riciclaggio e il reimpiego del denaro così ‘ripulito’.
Questo meccanismo fraudolento, attraverso false trattazioni, faceva da nodo tra le aziende degli indagati e le società di diversi clienti che, per l’accusa, si rivolgevano alla gang per vari obiettivi fuori dalla legge, tra cui la frode fiscale. Si tratta in gran parte di imprenditori legate alle cosce della ‘ndrangheta a cui appartengono i tre presunti mandanti.
Antonio Scimone e i suoi complici, per l’accusa riuscivano a far transitare dai conti delle società ‘cartiere’ diverse centinaia di migliaia di euro al mese, e poi il denaro tornava in Italia attraverso bonifici a società di comodo oppure sui conti di società estere. Tra l’altro gli inquirenti ipotizzano anche infiltrazioni in appalti pubblici, traverso joint venture o anche attraverso contratti di ‘nolo a freddo’.
Tra gli imprenditori che avrebbero ‘usuifruito’ dei movimenti finanziari fraudolenti delle società della banda ci sarebbe anche Pietro Canale, socio di maggioranza e amministratore della Canale Srl, attiva nella costruzione e gestione di condutture di gas, ritenuto responsabile di riciclaggio, autoriciclaggio, ed impiego di denaro, beni e utilità di provenienza illecita, così come l’imprenditore Antonino Morda.
Oltre ai fermati, a conclusione dell’indagine, sono state denunciate, a vario titolo, 46 persone. E’ stato richiesto ed ottenuto il sequestro preventivo di 51 società con sede in varie 4 regioni d’Italia ed anche all’estero, 19 immobili e disponibilità finanziarie per un ammontare complessivo di circa 100 milioni di euro.