Denuncia militare per razzismo, condannata per calunnia

6 luglio 2018 | 11:32
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Denuncia militare per razzismo, condannata per calunnia

Aveva denunciato ai suoi superiori un carabiniere per abuso d’ufficio e razzismo, accuse dimostratesi poi false. Ora è stata condannata definitivamente per calunnia. La cittadina, di origini etiopi, anni fa aveva formulato gravissime accuse contro un militare lucchese, ingiurie aggravate da motivi di odio razziale, distruzione della patente e abuso di atti di ufficio, commessi, a suo dire, per ritorsione nei suoi confronti. Le indagini successive però avevano dimostrato che si trattava di accuse false e la Corte d’appello di Firenze l’aveva quindi condannata per calunnia, anche se in primo grado era stata assolta.

Ora la suprema Corte di Cassazione ha respinto il suo ricorso e la condanna è diventata definitiva. In primo grado, il tribunale aveva ritenuto che la volontà dell’imputata non fosse quella di voler accusare falsamente la persona offesa, in quanto le false accuse rivolte a quest’ultima non erano contenute in un atto rientrante tra quelli di cui all’articolo 368 del codice penale ed era lecito ipotizzare che la stessa avesse voluto solo rivolgersi ai superiori del militare affinché lo redarguissero e gli intimassero di non tenere più comportamenti (a suo dire) indebiti, come dimostrava la circostanza che non aveva espresso la volontà di sporgere querela.
In sede di appello, la Corte territoriale, adita dal pm e dalla parte civile, perveniva ad un diverso esito, rilevando che la condotta, consistita nell’aver portato a conoscenza del pubblico ufficiale, fatti aventi rilevanza penale costituiva una denuncia idonea ad integrare oggettivamente il reato, mentre per il dolo era sufficiente che l’imputata fosse stata consapevole della falsità delle accuse mosse, indipendentemente dai motivi soggettivi che avevano determinato l’azione. La stessa corte escludeva che vi fossero gli estremi per dubitare del presunto stato di alterazione psicologica dell’imputata. “Nel caso in esame- scrive la cassazione – correttamente, la corte di appello ha ritenuto integrato l’elemento soggettivo del reato, in quanto la circostanza evidenziata dal ricorso della espressa volontà di non voler sporgere querela (nella annotazione, la ricorrente dichiarava in chiusura anche peraltro di “riservarsi” tale facoltà se gli episodi segnalati non fossero cessati) non veniva di per sé ad escludere la suddetta consapevolezza, considerate le modalità con cui erano state rappresentate alla pubblica autorità le false accuse nei confronti della persona offesa”.

v.b.