
Era accusato di aver rapito e sequestrato un imprenditore ligure e di averlo rinchiuso in una baracca sul fiume Serchio a Lucca, dove era stato sottoposto a inaudite violenze per un presunto debito. Resta in carcere il 37enne arrestato lo scorso inverno dai carabinieri di Sarzana coordinati però dalla Procura di Lucca. L’uomo è accusato di sequestro di persona, estorsione e rapina aggravata. La Cassazione ha respinto il suo ricorso contro la precedente sentenza del tribunale del riesame di Firenze. Dovrà attendere in carcere il prosieguo dell’iter giudiziario a suo carico.
L’indagato, per gli inquirenti, è responsabile, insieme ad altri due complici, di aver anche picchiato e seviziato per ore la vittima. Nel pomeriggio di un’afosa giornata di luglio dello scorso anno l’imprenditore, secondo quanto è stato ipotizzato dagli inquirenti, era stato prelevato dalla propria abitazione in un Comune della Val di Magra e portato, con inganno, secondo l’accusa, in una baracca sulle sponde del fiume Serchio a Lucca dove ad attenderli c’era un terzo complice che li attendeva a volto coperto e armato di fucile a canne mozze. Qui la vittima sarebbe stata legate e picchiata per circa 6 ore dai 3, al fine di ritornare in possesso dello stupefacente dal valore al dettaglio di circa 45 mila euro.
Dopo essere stato rapinato della somma in contanti in suo possesso (circa 500 euro) veniva liberato poiché gli aguzzini si convincevano della sua estraneità ai fatti e anche perché aveva promesso, nonostante la sua estraneità, di risarcirli anche in parte del danno subito. Le indagini avevano consentito di risalire ai 3 uomini, di ricostruire la vicenda e raccogliere elementi di prova a carico dei tre soggetti che erano finiti in carcere. La vittima aveva affittato ai tre stranieri una baracca e aveva raccontato tutto ai militari dopo essere stato fermato per un normale controllo.
All’interno dell’auto i carabinieri avevano trovato un foglio scritto a mano nel quale aveva spiegato: “Se dovessi morire, questi sono i nomi dei miei aguzzini”. I militati avevano chiesto conto e lui aveva raccontato che il rapporto con gli affittuari era stato regolare fino a quando i tre, poi arrestati, si erano rivelati per ciò che erano: malviventi senza scrupoli. Il terzetto aveva accusato il proprietario di essere il responsabile della sottrazione di un ingente quantitativo di hashish, circa 30 chili, che avevano stoccato all’interno del capanno ritenendo un rifugio sicuro a cui le forze dell’ordine non sarebbero mai potute risalire. Da quell’episodio l’incubo finito poi con la liberazione ma dopo ore di torture. Questa la ricostruzione dell’accusa che in sede cautelare ha retto anche la vaglio della Cassazione. Ma le indagini e l’iter giudiziario proseguono per comprendere bene tutte le sfumature di una storia da approfondire e chiarire in ogni suo aspetto.
Vincenzo Brunelli