Collaboratrice domestica licenziata dopo essere guarita dal Covid: il calvario di Maria Grazia

Lasciata a casa dopo la convalescenza con un preavviso di 15 giorni: “Siamo lavoratori senza tutele, anche i contratti non ci danno garanzie”
Per molti lavoratori la stipula di un contratto rappresenta ancora un evento raro. Fra questi, la categoria dei domestici: collaboratori, colf e badanti, abituati per lo più a tirare avanti in nero senza nessuna tutela. Situazione relativamente migliore al sopraggiungere della fatidica firma, che di vantaggi ne apporta in realtà pochi: ancora di meno in questi tempi di pandemia, che ha lasciato “gli ultimi”… proprio là dove già stavano. In fondo alla fila.
Ce lo racconta Maria Grazia, 57 anni di Lammari, collaboratrice domestica a tempo indeterminato da due anni da una benestante famiglia lucchese, che dopo una battaglia fisica e psicologica di due mesi e mezzo contro il Covid è stata rispedita a casa. Licenziata. “A fine gennaio il mio datore mi ha comunicato che non dovevo rientrare in servizio – spiega Grazia – Il motivo? L’aver più volte rimandato il mio ritorno a causa della malattia”.
Una malattia estremamente logorante, dagli strascichi difficili da eliminare. Dopo i primi sintomi a novembre scorso, subito nella donna il sospetto che fosse Covid e la conferma dal tampone il 19 dello stesso mese: positivo. Inizia così l’isolamento in casa a combattere da sola la sua battaglia: “I disagi fisici sono ben noti: nausea, mancanza di appetito, debolezza tale da non riuscire a camminare e il senso di affanno continuo. Meno conosciute sono le conseguenze psicologiche del virus – racconta -: convivere con un senso constante d’ansia per la paura di dover correre in ospedale, incollata al misuratore d’ossigeno. L’angoscia di non riuscire a respirare più da un momento all’altro”.
Angoscia diminuita con il primo tampone negativo, il 29 novembre: ma la luce in fondo al tunnel restava lontana. “Ero stanchissima, debole e avevo difficoltà a mangiare come prima. Con otto chili in meno e dolori articolari e al cuore sarebbe stato difficile badare a una donna ultraottantenne non autosufficiente. Tornare a lavorare non era possibile – osserva Maria – ma quando l’ho comunicato al mio datore di lavoro, l’ancor piùà anziano marito della donna, titolare di un’azienda, non sembrava ci fossero problemi: aveva assunto una sostituta a tempo determinato per la durata della mia convalescenza. La donna sarebbe andata via non appena mi fossi sentita in forze”.
“Così è passato dicembre: fra casa e ambulatori medici. Ho dovuto spendere infatti molti soldi in una serie di visite specialistiche impossibili da coprire con la mutua, dati i lunghissimi tempi d’attesa. Visite non semplici da sostenere economicamente, dato che non ero più retribuita”. La copertura per malattia di un domestico regolarmente sotto contratto non supera infatti i 15 giorni all’anno, oltre i quali si rimane senza stipendio: troppo pochi ovviamente, per un malato di Covid. Che oltre a scontare la convalescenza vera e propria, quasi sempre rimane a casa ben oltre i tamponi negativi a causa delle pesanti ripercussioni fisiche e psichiche del virus. Come Maria, ammalatasi di depressione nei due mesi e mezzo di degenza casalinga. Terminata la quale, decide di avvertire prontamente il datore della sua decisione: rientrare a lavoro.
“Era fine gennaio e mi sentivo finalmente in grado di assolvere ai miei compiti, seppur ancora debole. Ma con mia sorpresa – ricorda – ho scoperto di esser già stata sostituita definitivamente. L’anziano si è giustificato spiegandomi di aver creato troppi problemi rimandando più volte il mio ritorno. Poi, con una lettera di licenziamento e 15 giorni di preavviso mi ha rispedito a casa, dando il mio posto a quella che doveva essere una sostituta temporanea. Così sono stata liquidata per la sola colpa di essermi ammalata di Covid, da una persona con cui avevo intessuto un buon rapporto confidenziale. Sono bastati pochi mesi, a malapena due e mezzo in cui ho rischiato la vita, per mandare in fumo due anni di lavoro e dedizione”, dice amareggiata.
Dedizione e disponibilità totale e completa, da parte di una donna che nel suo luogo di lavoro si sentiva a casa. Forse sbagliandosi: “Lavoravo anche durante le feste con una paga identica a quella di un giorno normale. Ma a me andava bene perché mi consideravo in famiglia: non mi sono mai lamentata, né ho avanzato pretese o critiche”.
“Al contrario – sottolinea – mi sono sempre ritenuta molto fortunata ad avere un contratto di lavoro, evento raro per un collaboratore domestico. Tuttavia, ho scoperto sulla mia pelle che non solo a cose normali, ma anche in questo particolare momento storico dettato dalla pandemia, noi collaboratori siamo esclusi da qualsiasi tipo di tutela da parte dello Stato”.
Stato che nell’emergenza socio-economica, non ha infatti preso nessun tipo di misura straordinaria a beneficio di questa categoria. Il decreto rilancio, prolungamento temporale del Salva Italia, sospende i licenziamenti per molteplici tipologie di lavoratori: ad esclusione però dei collaboratori domestici e titolari di contratto di collaborazione coordinata e continuativa, che continuano a rischiare il licenziamento nonostante la pandemia.
Le motivazioni risiederebbero nel regime di libera decidibilità di questi tipi di contratto, che prevede la possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare liberamente senza la necessità di fornire un giustificato motivo o giusta causa. “Infine – spiega l’ufficio legislativo del ministero del lavoro, rispondendo a un’interrogazione dell’Inps su tale questione – la disposizione di cui all’articolo 46 del decreto Cura Italia non trova applicazione per i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, in quanto l’ambito di applicazione del medesimo articolo è limitata ai soli rapporti di lavoro subordinato”.
“Avere un contratto di lavoro come il mio non dà nessuna garanzia: è l’equivalente di poter essere licenziati senza alcun tipo di tutela – osserva amareggiata Maria Grazia, concludendo – Sembra che nessuno abbia mai fatto né faccia niente attualmente per discutere e migliorare la condizione lavorativa di noi domestici, nemmeno il sindacato mi ha potuto dare una mano. ‘Purtroppo – mi ha spiegato – voi domestici non rientrate nel blocco dei licenziamenti, ragion per cui abbiamo le mani legate. Non possiamo fare niente per aiutarti’”.