Il tempo per indossare la divisa di lavoro non va retribuito, tribunale di Lucca dà torto a 3 dipendenti Asl

4 febbraio 2022 | 12:35
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Respinto il ricorso: “Non si tratta di un obbligo imposto dal datore di lavoro, ma di obbligo normativo”

“Perdiamo 20 minuti al giorno per indossare la divisa e tutti i dispositivi di sicurezza dovuti al Covid, e questo significa per noi arrivare ogni giorno sul posto di lavoro dieci minuti prima e andar via dieci minuti dopo l’orario previsto, quindi chiediamo che questi 20 minuti, moltiplicati per sei giorni lavorativi e per gli ultimi 5 anni, ci vengano retribuiti come straordinario in busta paga“.

In estrema sintesi è questa la motivazione alla base di una causa intentata da due infermieri e un fisioterapista all’Asl Toscana nord ovest che è arrivata a sentenza mercoledì (2 febbraio).

Il giudice del tribunale di Lucca, Antonella De Luca, ha respinto il ricorso compensando le spese. Il singolare contenzioso era stato iscritto a ruolo circa due anni fa da parte dei tre dipendenti a tempo indeterminato in due strutture sanitaria delle Lucchesia che lamentavano di non poter portare a casa la divisa per poi arrivare sul posto di lavoro “già vestiti”, senza perdere tempo a mettere e togliere tutti i dispositivi obbligatori per legge, oltre al vestiario. Tutta roba che non può essere portata a casa per legge. Il giudice è stato quindi innanzitutto chiamato a stabilire da un punto di vista legislativo in che tipologia rientrasse tale richiesta, che ad un occhio umano può apparire molto “estrosa”.

Ma si legge in sentenza: “Quindi, ai fini di valutare se il tempo occorrente per indossare la divisa aziendale debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina specifica dei singoli rapporti di lavoro: in particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo, ed eventualmente anche il luogo, ove indossare la divisa stessa, la relativa attività fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale non deve essere retribuita, mentre se tale operazione è diretta dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo o il luogo di esecuzione, rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito. Non può, difatti, essere considerato come tempo di lavoro quello dedicato alla vestizione, laddove non vi sia alcuna rilevazione, né alcun controllo datoriale sulla effettiva misura dell’impiego temporal.”.

Quindi intanto il giudice ha chiarito nella prima parte delle motivazioni che se tale vestizione fosse stata disciplinata dal datore di lavoro sarebbe potuta rientrare nelle voci da retribuire in busta paga. Ma così non è, per il tribunale lucchese. Chiarisce infatti la sentenza nella seconda parte della motivazioni: “Da parte del personale impegnato in attività di assistenza sanitaria, quindi, l’indossare abbigliamento idoneo, nei sensi sopra indicati, costituisce assolvimento non di obbligo imposto dal datore di lavoro, ma di obbligo normativo, ed è qualificabile, come tale, obbligo preparatorio alla prestazione lavorativa di natura puntuale, non autonomamente e separatamente retribuibile in base ai principi sopra richiamati”.

Quindi l’obbligo di utilizzo di divise e dispositivi sanitari non solo sono obbligatori ma non possono rientrare negli emolumenti mensili perché non esiste un controllo su tempi e modi per poter parlare di straordinario, proprio perché il tutto avviene dopo che i dipendenti hanno timbrato il cartellino, in entrata, e prima in uscita, quindi durante l’orario lavorativo. Spiega infatti infine la sentenza: “Autonoma retribuzione sarebbe dovuta, quindi, solo se la struttura sanitaria di appartenenza regolamentasse puntualmente, quanto all’abbigliamento di lavoro, non solo gli aspetti sopra indicati, ma anche luoghi e tempi di vestizione e svestizione ed effettuasse appositi rilevazioni e controlli sui lavoratori. Nella fattispecie, però, non sono state prodotte determinazioni aziendali al riguardo. Deve quindi ritenersi, in particolare, che gli appartenenti al personale sanitario siano liberi di indossare la divisa dopo avere timbrato in entrata e di svestirsene dopo avere timbrato in uscita. Né, infine, sono emersi elementi di prova da cui potersi evincere che i ricorrenti fossero obbligati ad indossare la divisa di lavoro prima della timbratura in entrata ed a svestirla dopo la timbratura in uscita, o che, di fatto, abbiano così operato. In difetto di atti di eterodirezione, da parte dell’azienda convenuta, di tempi e luoghi di esecuzione delle attività di vestizione e svestizione della divisa di lavoro, deve quindi ritenersi, in base a quanto sopra osservato in diritto, che la relativa attività da parte della ricorrente non sia autonomamente retribuibile ma costituisca attività preparatoria puntuale alla prestazione di lavoro. Il ricorso va quindi respinto”.

Il primo grado di questo singolare processo si è ora concluso.