Diffama in un esposto il collega che gli nega il saluto in udienza: avvocato condannato

La Cassazione ha messo la parola fine alla querelle fra due legali sorta ai margini di un’udienza
Dare del ‘‘villano’’ al collega, in un esposto, è diffamazione.
Avvocato originario della Lucchesia presenta esposto al consiglio dell’ordine fiorentino contro un collega del capoluogo di regione che non lo avrebbe salutato né in udienza né prima di entrare in aula ma usa termini ritenuti diffamatori. Per questo è stato condannato per diffamazione a pagare 1500 euro oltre ben 4mila di spese di rappresentanza e difesa. E’ quanto hanno stabilito nei giorni scorsi i giudici della suprema corte di Cassazione.
La vicenda risale a circa due anni fa quando l’avvocato si accorge che il collega non gli ricambia il saluto per ben due volte e sentendosi offeso propone un esposto al consiglio dell’ordine. Ma forse preso dall’indignazione in tale esposto utilizza il termine “villano” e altri sinonimi per sottolineare il comportamento del collega che non lo aveva salutato. Proprio le parole utilizzate nell’esposto hanno poi portato a una causa per diffamazione che adesso è arrivata a sentenza definitiva. Scrivono infatti gli ermellini respingendo il ricorso dell’avvocato contro la condanna: “La sentenza impugnata ha fondato il giudizio di sussistenza del fatto diffamatorio correlandolo all’espressione “villano” utilizzata dall’imputato nell’esposto contro il collega avvocato, espressione che, ad avviso del giudice di appello, contiene un’evidente carica dispregiativa ed è comunemente avvertita come espressiva di una chiara volontà di offendere la reputazione della persona cui viene riferita. Il ricorso censura il punto della decisione impugnata rilevando che l’avvocato fiorentino non aveva salutato l’imputato in udienza e davanti all’ascensore, ma, a questo proposito, la sentenza impugnata ha rilevato che la stessa, nella corrispondenza allegata all’esposto, fa espresso riferimento all’eventualità che il collega non lo conoscesse, riferendosi al mancato saluto di fronte all’ascensore del tribunale. Al riguardo, il ricorso non articola alcuna specifica doglianza, ma, come si è anticipato, si limita a far riferimento al mancato saluto “in udienza e davanti all’ascensore”, ossia a un diverso contesto, il che rende, per questa parte, il motivo versato in fatto. Nel resto, l’espressione utilizzata non consiste nella prospettazione di dubbi o perplessità sull’operato del legale o di violazioni di regole deontologiche proprie della professione legale, sicchè risultano inconferenti i richiami giurisprudenziali proposti dal ricorso. Esulano dal nucleo essenziale della ratio decidendi le questioni attinenti ai ruoli processuali del difensore dell’assicurazione e di quello dell’assicurato, poichè, come si è detto, è l’espressione sopra richiamata ad integrare, nella valutazione del giudice di merito, il fatto di diffamazione”.
Il saluto non è obbligatorio e le parole usate nell’esposto sono state invece giudicate diffamatorie. “Chiedere (un saluto) è lecito, rispondere è cortesia”, recita l’antico adagio. Il caso è chiuso.