Società titolare di sale slot chiede mezzo milione di risarcimento per le chiusure causate dai decreti Covid: per il Tar i Dpcm erano legittimi

Il tribunale amministrativo ha respinto il ricorso. L’azienda voleva il riconoscimento come attività essenziale “per i lavoratori impiegati e per le casse dell’erario”
Storica sentenza del Tar del Lazio in una causa contro lo Stato da parte di una società che opera nel settore delle slot machine, destinata a far discutere creando inesorabilmente un precedente in Italia in materia.
Il gestore di due grosse sale giochi, una a Lucca e l’altra a San Miniato, ha fatto causa al governo, al Monopolio di Stato, al ministero della salute e al Comitato tecnico scientifico, chiedendo l’annullamento dei vari dpcm di chiusura dei negozi del suo settore, dal 2020 in poi, e contestualmente chiedendo anche oltre mezzo milione di euro di risarcimento danni, ritenendo questo genere di attività lavorative di primaria importanza per i lavoratori e per l’erario.
Dopo alterne vicende, in fase cautelare, nei giorni scorsi è stata pubblicata la sentenza di merito del Tar del Lazio che ha dichiarato improcedibili le domande annullatorie dei dpcm, per sopravvenuta carenza di interesse visto che non hanno più valore, e ha rigettato in toto la domanda risarcitoria. La società che gestisce le due sale giochi ha ovviamente facoltà di proporre appello al Consiglio di Stato. Si vedrà in futuro.
Con il ricorso ai giudici amministrativi la srl che è proprietaria delle due sale giochi, rappresentando di svolgere attività di commercializzazione di giochi pubblici e scommesse su eventi virtuali, di gestione di gioco lecito tramite awp e vlt (videogiochi con vincita in denaro, le slot machine di ultima generazione) e di diffusione e promozione anche di giochi pubblici a distanza (via web) per conto di un concessionario dello Stato aveva impugnato i provvedimenti che disponevano la sospensione delle attività, al fine del contenimento della pandemia da Covid, “di sale giochi, sale scommesse, sale bingo e casinò” (dpcm del 24 ottobre 2020), estendendo poi tale inibitoria alle medesime attività “anche se svolte all’interno di locali adibiti ad attività differente e nonostante tutte le precauzioni possibili, chiedendone l’annullamento e la conseguente condanna al risarcimento del danno, quantificata in oltre mezzo milione di euro. Man mano che venivano emanati altri dpcm di chiusura la società li impugnava tutti, sempre al Tar, con conseguente allungamento dei tempi di decisione nel merito. E infatti dopo alcuni passaggi in fase cautelare tra il Tar e il Consiglio di Stato, ora la causa è giunta finalmente alla sentenza di merito di primo grado che ha sostanzialmente respinto il ricorso in ogni sua parte.
La sentenza
Nei ricorsi aggiuntivi che nel tempo si sono sommati all’originario ricorso la società sosteneva che che “i verbali del Cts non evidenzierebbero le ragioni poste a base della sospensione dell’attività imprenditoriale. Inoltre, sempre prendendo le mosse dal pronunciamento monocratico, si deduce l’erroneità della classificazione delle attività non essenziali, risultando palese che quelle gestite dalla società ricorrente siano sicuramente di primaria importanza per i lavoratori impiegati, nonché per le casse dell’erario. Infine, si lamenta ulteriore disparità di trattamento con riguardo alle attività di musei, cinema e teatri (vedi articoli 14 e 15 dpcm 2 marzo 2021), i quali presenterebbero fattori di rischio maggiori rispetto alle sale scommesse o bingo”.
I giudici amministrativi rigettando ogni pretesa della società hanno così risposto, in modo chiaro e inequivocabile: “Preliminarmente, deve osservarsi come il ricorso, unitamente ai proposti motivi aggiunti, per l’annullamento degli atti gravati è improcedibile per sopravvenuta carenza d’interesse, avendo i decreti impugnati esaurito i loro effetti. Residua, pertanto, unicamente l’analisi della loro legittimità ai fini del giudizio risarcitorio: invero, qualora i provvedimenti fossero legittimi, non sussisterebbe l’elemento oggettivo del danno ingiusto. I ricorsi, nel complesso, sono tutti infondati, essendo i provvedimenti impugnati invece pienamente legittimi. Si rileva, solo per inciso, che le sospensioni imposte dal governo venivano comunque compensate con l’elargizione di svariati ristori per le imprese coinvolte, vòlte a mitigare le inevitabili conseguenze negative dei provvedimenti impugnati. Ciò vale in particolare per i lavoratori che, attraverso varî ammortizzatori sociali, vedevano solo parzialmente compressa la propria retribuzione. Può anzi osservarsi come l’adesione alla impostazione di parte ricorrente (e cioè il reputare sussistente una responsabilità dell’amministrazione per adozione di provvedimenti illegittimi) condurrebbe a far ritenere senza titolo proprio tutte le varie elargizioni che lo Stato ha riconosciuto ai vari operatori e che vanno ricondotte nel prisma indennitario tipico della cosiddetta “responsabilità da atto lecito”. In conclusione, può affermarsi che i diversi decreti governativi hanno tutti compiuto un equo bilanciamento dei contrapposti interessi coinvolti: essi non appaiono viziati da illogicità o incongruità, essendo stati adottati all’esito di puntuali istruttorie, risultando idonei (almeno in astratto) a contenere quanto più possibile i contagi, in un quadro emergenziale straordinario, imprevedibile ed in continua evoluzione. La legittimità dei decreti impugnati e l’assenza della colpa, pertanto, rendono infondata la domanda risarcitoria”.
Il primo grado di giudizio di questa storica causa è chiuso.