Cittadinanza italiana negata, anche il Tar dà ragione al ministero

Il tribunale amministrativo ha respinto il ricorso di una cittadina di origini albanesi: aveva un processo penale in corso da cui è stata prosciolta per remissione di querela
Chiede la cittadinanza italiana ma il ministero gliela nega, e ora lo fa anche il Tar del Lazio. La cittadina di origini albanesi aveva, infatti, all’epoca della richiesta, un processo penale in corso al tribunale di Lucca per minacce e atti persecutori e insieme ad altre valutazioni le era stata negata la cittadinanza italiana. Poi questo procedimento penale era stato definito dal gup del tribunale cittadino nelle scorse settimane, prima della sentenza odierna del Tar, e la donna era stata prosciolta per remissione di querela.
Ma per i giudici amministrativi, nonostante il proscioglimento, il Viminale ha fatto bene a negarle la cittadinanza. Scrivono infatti i giudici in sentenza: “Tanto basta a sorreggere il giudizio di non compiuta integrazione nella comunità nazionale, desumibile in primis dal rispetto delle regole di civile convivenza e dalla sicura e rigorosa osservanza della legge penale vigente nell’ordinamento giuridico italiano e il conseguente diniego opposto dal ministero. Né vale, in senso contrario, la sopravvenuta adozione della sentenza con la quale il gup al Tribunale di Lucca ha dichiarato di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 425 del codice penale per intervenuta remissione di querela in giudizio. Siffatto pronunciamento è innanzitutto successivo alla emissione del provvedimento impugnato e, pertanto, non è idoneo a inficiarne la validità e le presupposte argomentazioni logico-giuridiche. E ciò soprattutto ove si consideri che la menzionata i è limitata a prendere atto del venir meno del presupposto per l’esercizio dell’azione (appunto, per remissione di querela), dando comunque atto sia della esistenza delle condotte contestate alla ricorrente che della loro rilevanza penale”.
L’acquisizione dello status di cittadino italiano per naturalizzazione è oggetto di un provvedimento di concessione, che presuppone un’amplissima discrezionalità in capo all’amministrazione, come si ricava dalla norma, attributiva del relativo potere, contenuta nell’art. 9, comma 1, della legge n. 91/1992, ai sensi del quale la cittadinanza “può” essere concessa. “L’ampia discrezionalità in questo procedimento si esplica, in particolare, in un potere valutativo in ordine al definitivo inserimento dell’istante all’interno della comunità nazionale, in quanto al conferimento dello status civitatis è collegata una capacità giuridica speciale, propria del cittadino, che comporta non solo diritti – consistenti, sostanzialmente, nei “diritti politici” di elettorato attivo e passivo (che consente, mediante l’espressione del voto alle elezioni politiche, la partecipazione all’autodeterminazione della vita del Paese di cui si chiede di entrare a far parte), e nella possibilità di assunzione di cariche pubbliche – ma anche doveri nei confronti dello Stato-comunità, con implicazioni d’ordine politico-amministrativo; si tratta infatti di determinazioni che rappresentano un’esplicazione del potere sovrano dello Stato di ampliare il numero dei propri cittadini”.
La donna è stata condannata anche a mille euro di spese di giudizio.