Condannato per ricettazione continuata in Lucchesia il figlio del boss Giuseppe Morabito

24 giugno 2022 | 15:11
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Condannato per ricettazione continuata in Lucchesia il figlio del boss Giuseppe Morabito

Giovanni Morabito, classe 1969, è discendente del capo di uno dei clan di ‘ndrangheta più potenti di sempre

Nei processi penali conta certamente il reato commesso, o per cui si è sotto accusa, ma anche chi lo commette o è imputato. In questo caso il nome del condannato è di gran lunga superiore al reato. Lui è infatti Giovanni Morabito, classe 1969, e figlio del boss dei boss, Giuseppe Morabito, ‘U Tiradrittu, uno dei clan di ‘ndrangheta più potenti di sempre.

Il tribunale di Lucca lo aveva condannato nel 2015 per ricettazione continuata, e la corte d’appello di Firenze nel 2020 aveva poi confermato la sentenza di primo grado. Ora la pronuncia definitiva da parte della suprema corte di Cassazione. L’ennesima risultanza processuale che avvalora e dimostra tutti gli allarmi delle relazioni della Dia (Direzione investigativa antimafia) degli ultimi anni, riguardanti la presenza ormai costante delle mafie in Toscana, terra di conquista per affari e business di ogni genere e tipo.

E infatti la storia di Giovanni Morabito, che finirà nella prossima relazione della Dia che già da tempo ha inserito il clan Morabito tra quelli più attivi in Lucchesia e in Toscana, è a dir poco emblematica. Nel 2015 il gup di Lucca lo condanna, per episodi di ricettazione, ma l’indagine era partita da Livorno, dove risultava addirittura residente, e coinvolgeva anche professionisti e altre persone. Ma in guai con la giustizia di Giovanni Morabito per reati commessi in Toscana proseguono e a primavera del 2018 la polizia lo cerca per dare esecuzione a un provvedimento di unificazione di pene concorrenti emesso dalla procura generale presso la corte d’Appello di Firenze per scontare una pena residua complessiva di cinque anni di reclusione per truffa e falsificazione di documenti.

Dopo la sentenza di condanna si era dato alla latitanza nascondendosi verosimilmente nel Pisano, ma in piena estate a polizia lo aveva intercettato a Tirrenia in compagnia di due ragazze belghe, autostoppiste che gli avevano chiesto un passaggio in auto fino a Viareggio, stando ai resoconti processuali. In manette era così finito Giovanni Morabito, 53 anni, originario di Africo (Reggio Calabria), ma da tempo, come detto, residente a Livorno, con precedenti per reati contro il patrimonio, la persona, associazione a delinquere di stampo mafioso e per essere stato in passato sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno a Livorno dal 13 luglio 2017. Morabito aveva consegnato ai poliziotti documenti falsi, una carta di identità con le stesse generalità false per il cui utilizzo era stato già condannato in passato. Riconosciuto senza ombra di dubbio dai poliziotti, il ricercato era stato accompagnato in questura e dopo in carcere per scontare la pena.

Ora si aggiunge anche questa condanna definitiva per reati commessi in Lucchesia. Non sono mai casuali i “fatti di mafia”, mai. Non vengono scelti a caso dai boss i luoghi in cui risiedere, mettere su famiglia, far nascere figli eccetera. Alla base c’è sempre il business che deve portare soldi nelle casse del clan di riferimento, costi quel che costi, ed è impensabile che a questi livelli le mafie si muovano senza appoggi esterni al clan, anche di persone insospettabili.

I fatti di sangue raramente vengono commessi nelle regioni dove si intende fare business perché destano inevitabilmente l’attenzione della popolazione oltre che di forze dell’ordine e giudici, e questo per gli affari non è mai “una cosa buona”. Meglio restare invisibili almeno agli occhi della gente, meglio far credere ai cittadini che non esistono o che comunque non creano problemi diretti alla vita di ogni giorno della maggior parte della popolazione. “Il più grande inganno del diavolo è stato quello di far credere al mondo che lui non esiste”.