Vede il suo anello con smeraldo al dito della collega e la denuncia. L’altra si difende: “E’ il gioiello di mia madre”. Ma viene condannata

La proprietaria sosteneva di averlo acquistato da un noto orafo di Lucca e in sede civile ha prodotto la documentazione
L’anello della discordia: potrebbe essere questo il titolo del racconto che emerge da alcune sentenze dalle quali si evince che nei due giudizi (uno penale e l’altro civile) è successo di tutto. Sì perché questa è la storia di un anello con smeraldo per il quale due colleghe, di cui una è originaria di Lucca, sono finite in tribunale, prima a livello penale e poi civile.
Entrambe all’epoca dei fatti lavoravano nel comparto sanitario a Montecatini e un giorno la donna, poi risultata essere la proprietaria dell’anello, nota il prezioso oggetto al dito della collega, nel 2014, e sbigottita prima chiede spiegazioni poi si rivolge alle forze dell’ordine e alla magistratura. Quell’anello è suo, secondo lei, comprato regolarmente a Lucca nel 1990 in una nota oreficeria cittadina, e lo aveva perduto tempo prima perché si era allentato e le era scivolato dalle dita senza ricordare bene dove.
Lo aveva cercato dappertutto ma senza esito. La collega risponde che in realtà si tratta dell’anello ricevuto in eredità dalla madre deceduta ma alla fine della storia verrà fuori che non era proprio così, almeno secondo i giudici. Dapprima viene incriminata per ricettazione, reato poi derubricato dal tribunale di Pistoia in appropriazione di cosa smarrita o di cui si viene in possesso per errore altrui o caso fortuito (articolo 647 del codice penale), su querela della proprietaria dell’anello, e infine assolta perché il fatto, nel frattempo, non era più previsto dalla legge come reato, e non si era riuscito a dimostrare altro.
L’anello addirittura finisce sotto sequestro e poi dissequestrato in favore della legittima proprietaria che aveva mostrato documenti che ne attestavano in qualche modo appunto la proprietà. Ma “forte” dell’assoluzione penale la donna torna all’attacco e chiama in causa, civile stavolta, la collega che intanto era rientrata in possesso dell’anello, e chiede sia l’anello sia 20mila euro di risarcimento danni. Ma anche in questo caso i giudici le hanno dato torto e l’hanno condannata a circa 5mila euro di spese legali e di giudizio.
Si legge nella sentenza del tribunale di Pistoia a firma del giudice Nicola Latour, pubblicata lo scorso 17 novembre: “La ricorrente assume che l’anello per cui è causa, dissequestrato in favore della convenuta, sia di sua proprietà, in quanto da lei ricevuto in eredità dalla madre, deceduta nel 2011. Occorre ricordare che, nel caso in cui l’attore assuma di essere titolare del diritto di proprietà di un bene, ma di non averne più la materiale disponibilità, si è in presenza di un’azione di rivendicazione, a carattere reale, volta ad ottenere il riconoscimento del diritto di proprietà ed il conseguimento del possesso sottrattogli contro la sua volontà. L’attore che agisce in rivendica del bene mobile deve non solo limitarsi a provare il possesso dello stesso alla data in cui gli è stato sottratto, ma deve anche, altresì, fornire la prova dell’esistenza di un titolo astrattamente idoneo al trasferimento della proprietà. Nel caso di specie, detto onere non può ritenersi assolto”.
Durante il processo civile è riemerso che l’anello in questione fosse stato realizzato da un noto orafo di Lucca e venduto presso il suo negozio nel 1990, come da certificato di garanzia in possesso della donna; l’anello veniva, poi, modificato nel giugno 1995, sostituendo il brillante con uno smeraldo e modificando l’incastonatura da rotonda a quadrata.
Prosegue infatti la sentenza: “A sostegno di tali affermazioni, la convenuta produceva il certificato di garanzia rilasciato dall’orafo di Lucca, oltre che la ricevuta e il certificato di garanzia del laboratorio lucchese d’oreficeria “che ha poi eseguito le modifiche. Al fine di vagliare la correttezza della ricostruzione della convenuta, ed acquisire maggiori elementi circa le caratteristiche dell’anello oggetto di causa, il giudice disponeva consulenza tecnica d’ufficio”. E qui il piccolo colpo di scena che però non ha prodotto i risultati sperati dalla ricorrente. Spiega infatti la sentenza: “Dall’impianto istruttorio descritto, non è possibile ricavare, invero, alcun elemento che, con certezza o quantomeno alta probabilità, faccia ritenere che l’anello per cui è causa sia di proprietà dell’attrice. Di contro, la convenuta ha fornito della documentazione che, sebbene solo parzialmente (come emerso in sede di ctu), è compatibile con l’anello oggetto di causa. Pertanto, la domanda deve essere rigettata, non avendo l’attrice assolto al proprio onere probatorio”. Non c’è certezza assoluta ma nel processo civile funziona così, chi fa causa deve dimostrare quello che dice e comunque superare le repliche di parte avversa, e non vige la regola del “contro ogni ragionevole dubbio” ma del “più probabile che non”. La donna ora si arrenderà o ci sarà un processo civile di secondo grado? Si vedrà.