Maxi richiesta di danni alla Fondazione Festival Pucciniano: la Corte d’Appello nega il risarcimento

Per i giudici nessuna calunnia e diffamazione nei confronti di un noto operatore culturale
Noto operatore culturale ha perso anche in secondo grado la causa che aveva intentato contro la Fondazione del festival pucciniano, chiedendogli 3 milioni di euro di danni per calunnia e diffamazione. Ma anche per i giudici della corte d’Appello di Firenze, come per i colleghi di Lucca, le richieste dell’operatore sono da respingere, e con la sentenza pubblicata ieri (3 febbraio) i giudici Covini, Conte e Caporali hanno condannato il noto direttore d’orchestra a pagare le spese alla Fondazione per circa 30mila euro.
Il presidente e direttore artistico di alcune associazioni musicali, ha appellato la sentenza del 2018 del tribunale di Lucca, che aveva respinto la sua domanda risarcitoria nei confronti della Fondazione dopo che aveva intentato una causa civile a seguito della sua assoluzione rispetto alla vicende penali, legate ad una sua presunta usurpazione del marchio della Fondazione. La richiesta di risarcimento danni, avanzata alla prima udienza del gennaio 2015, si aggirava sui 3 milioni di euro. Danni che secondo l’uomo gli erano stati procurati sia personalmente, per via delle accuse penali rivelatesi del tutto infondate e rispetto alle quali era stato assolto definitivamente nel gennaio 2014, sia per i danni procurati a tutte le associazioni da lui stesso rappresentate, per perdita di chance e di contributi nell’espletamento delle loro attività.
Passata in giudicato la sentenza con la quale l’uomo era stato assolto dall’accusa di aver usurpato il marchio del Pucciniano di Torre del Lago era passato al contrattacco, iniziando a sua volta un’azione di risarcimento danni. Ma sia i giudici di Lucca sia i giudici di secondo grado di Firenze hanno respinto le sue istanze. La vicenda è molto complessa, delicata e parte da fatti che hanno portato a procedimenti penali e civili. Penalmente era già tutto risolto e mancava solo la sentenza civile di secondo grado per chiudere la vicenda di merito. Manca soltanto, se sarà chiesto per questioni di legittimità, l’eventuale sentenza della suprema corte di Cassazione. La Fondazione aveva ottenuto una inibitoria nei confronti di un’altra società da parte del Tribunale fiorentino, molti anni fa, a non usare alcune parole che potevano ricondurre alla Fondazione stessa. Di tale società ritenevano legale rappresentante l’appellante e successivamente lo avevano querelato per usurpazione del marchio. Il processo penale si era poi concluso con l’assoluzione dell’operatore culturale, perché il fatto non costituisce reato, che quindi aveva chiesto a sua volta i danni per calunnia, in sede civile, alla Fondazione. Ma per i giudici non ci fu calunnia, cioè all’epoca della querela penale la Fondazione non sapeva con certezza che l’uomo fosse innocente, e non ha mentito in sede di querela, altrimenti ci sarebbe stata calunnia ovviamente. Una vicenda molto complicata, insomma, che però ora è arrivata ad un’altra tappa quasi conclusiva con la sentenza d’Appello che ha respinto le richieste milionari di danni.
La sentenza d’Appello
Si legge in sentenza: “A fronte di tale complessivo quadro, la circostanza, invocata dagli appellanti a dimostrazione della malafede della Fondazione, che in data 12 maggio 2006, subito dopo l’emissione dell’inibitoria da parte della sezione specializzata del Tribunale di Firenze, tale ente avesse notificato l’atto di precetto a una persona, quale legale rappresentante non appare invece rilevante. Benvero, tale notifica è precedente di qualche mese (12 maggio 2006/22 settembre 2006) alla dichiarazione resa dall’appellante all’ufficiale giudiziario di essere lui il legale rappresentante di tale associazione, e del resto la Fondazione nella propria querela dà espressamente conto del fatto che prima il legale rappresentante dell’associazione era una persona, e poi era divenuto l’appellante, citando quale fonte di conoscenza di tale circostanza proprio la di lui dichiarazione. Dunque, conclusivamente, alcuna falsità è stata rappresentata all’autorità giudiziaria, rientrando, tra l’altro, tra i compiti di quest’ultima quella di espletare indagini per verificare se, al di là delle circostanze tutte vere riportate nella querela, ve ne fossero di diverse ed ulteriori che sovvertivano il quadro probatorio d’insieme. Un conto, insomma, sarebbe stato se la Fondazione avesse affermato che l’appellante era il legale rappresentante dell’associazione sulla base delle visure camerali, altra è l’aver riferito un fatto reale, ovvero che lui si fosse qualificato tale”. E ancora infine scrivono i giudici di secondo grado: “Dinanzi ad una simile confessione, non appare davvero possibile sostenere che la Fondazione aveva attribuito all’appellante la qualifica di legale rappresentante, e dunque la responsabilità per la violazione del provvedimento giudiziale, pur sapendo che egli era invece estraneo alle vicende associative e che non rappresentava tale associazione. Non ultimo, a prescindere dalla formale qualifica di legale rappresentante, affinché possa ravvisarsi la responsabilità penale è sufficiente che di fatto il soggetto assuma nell’ambito dell’associazione non riconosciuta una posizione apicale, svolgendo funzioni concrete di gestione e indirizzo dell’attività dell’ente, quindi anche sotto tale profilo l’individuazione da parte della Fondazione dell’appellante, quale responsabile per le violazioni dell’associazione, non poteva ritenersi calunniosa”.