Assunta come collaboratrice domestica ma fatta lavorare nell’affittacamere: scatta il risarcimento dopo anni di battaglie

8 settembre 2023 | 13:37
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Assunta come collaboratrice domestica ma fatta lavorare nell’affittacamere: scatta il risarcimento dopo anni di battaglie

Dopo aver perso in primo grado, la Corte d’Appello riforma la sentenza

Solo dopo una lunga battaglia giudiziaria ha visto un parziale accoglimento delle sue richieste e il riconoscimento dei suoi diritti, a testimonianza ennesima che il mondo del lavoro a volte è un gorgo dal quale far emergere la verità può risultare davvero difficile  se non impossibile.

La donna lavorava in un B&B di Lucca ma nella stessa struttura i proprietari avevano la residenza e quindi l’avevano assunta come collaboratrice domestica a 900 euro al mese più vitto e alloggio. Ma sin da subito le viene richiesto in realtà di occuparsi dell’albergo e come factotum, un “delitto” quasi perfetto perché per la donna è stato quasi impossibile dimostrare che in realtà era stata adibita a mansioni totalmente diverse dal suo contratto, con relativo sfruttamento soprattutto di tipo economico e non solo.

E infatti nel 2020 il tribunale di Lucca respinge il suo ricorso contro la proprietà del B&B che ha 12 stanze doppie per 24 posti letto perché la donna non era riuscita a dimostrare le differenti mansioni. Probabilmente non per volontà ma per mancanza di quella “malizia” necessaria ad acquisire prove valide. Era stanca di essere sfruttata e dopo oltre un anno aveva prima chiesto una diversa retribuzione a fronte di un contratto adeguato alle sue reali mansioni e a seguito del diniego dei proprietari si era infine rivolta a un legale e poi al Tribunale cittadino. Ma a quel punto le prove in mano erano davvero poche per dimostrare lo sfruttamento.

E’ emerso nel procedimento che nel periodo aprile-settembre, quando nell’albergo vi erano gli ospiti, iniziava a lavorare alle 7,30 di mattina preparando i tavoli per le colazioni e servendo i clienti; finite queste mansioni, effettuava la pulizia delle camere sino alle 12,30, quando andava in cucina per svolgere (sino alle 14,30/15), attività di aiuto cuoco e lavapiatti, a supporto del marito. Il lavoro veniva ripreso alle 17, quando apparecchiava la sala e poi alle 19, per dare una mano a quest’ultimo; servendo infine la cena alle 20; nel periodo ottobre-marzo, svolgeva mansioni di manutenzione dell’albergo, curava il giardino, e faceva attività di custode. Ma non riesce a dimostrarlo con certezza proprio per quell’inghippo iniziale per cui i testimoni ascoltati la vedevano sempre in struttura ma nella stessa c’era pure, come detto, la residenza dei suoi datori di lavoro e quindi è stato difficile provare le sue tesi. In primo grado dunque perde la causa ma nei giorni scorsi la svolta. La corte d’Appello di Firenze, infatti, riformando parzialmente la sentenze dei colleghi lucchesi ha pubblicato una sentenza di condanna nei confronti dei proprietari della struttura a 11.500 euro di risarcimento per differenze retributive mai erogate nei confronti della donna. I giudici di secondo grado hanno infatti svolto un altro tipo di ragionamento e pur dovendo prendere atto che rispetto alle richieste principali della donna mancassero prove adeguate, hanno svolto attività di verifica, tramite una perizia, sulle buste paga presentate in aula.

Si legge infatti nella sentenza della corte d’Appello di Firenze, pubblicata, lo scorso 5 settembre, a firma dei giudici Papait, Rugiu e Taiti: “Parte appellante ha depositato un conteggio sufficientemente analitico, in base al quale spetterebbero al lavoratore le seguenti somme: 7.206,84 euro per retribuzioni, mensilità aggiuntive, ferie non godute per i periodi indicati; 3.250,83 euro per Tfr, per l’importo complessivo di 10.457,679 euro. L’appellante ha ritenuto altresì di calcolare le ferie spettanti per l’intero periodo; da questo ha poi detratto le ferie godute di cui sopra, calcolando le ferie non godute, il cui corrispondente monetario è pari a 1.133,10 euro: in proposito, si ritiene che debba essere corrisposto anche detto importo, sul presupposto che il dipendente ha diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute alla cessazione del rapporto di lavoro, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo messo nelle condizioni di esercitare il diritto alle ferie annuali retribuite mediante un’adeguata informazione  (nonché, se del caso, invitandolo formalmente a farlo) nel contempo rendendolo edotto, in modo accurato ed in tempo utile, della perdita, in caso diverso, del diritto alle ferie retribuite ed alla corrispondente indennità sostitutiva alla cessazione del rapporto di lavoro; dimostrazione che non è stata fornita”.

E infine: “Pertanto, spetta all’appellante l’importo complessivo di euro 11.590,77, oltre rivalutazione e interessi dalla scadenza dei singoli crediti al saldo e al pagamento di tali importi deve essere condannata parte appellante”. Non i 70mila euro che aveva richiesta ma comunque un risarcimento che le sarà certamente utile. Il caso nelle sue fasi di merito è chiuso.