Le scuole alla sfida del bilinguismo

7 maggio 2016 | 08:00
Share0
Le scuole alla sfida del bilinguismo

Una sala piena ieri pomeriggio (6 maggio) all’auditorium della Fondazione Banca del Monte per l’incontro aperto ad insegnanti ma anche alle famiglie sul bilinguismo infantile, un tema molto vasto e complesso che potrebbe apparirci lontano ma che in realtà non lo è affatto. Quante volte infatti ci siamo pietrificati di fronte ad un turista che ci ha chiesto informazioni, oppure lo abbiamo mandato chissà dove, sputando a caso le uniche parole che ricordavamo nella sua lingua. Purtroppo l’Italia, insieme alla Spagna, è uno dei paesi europei in cui le lingue straniere vengono ‘masticate meno’, non solo per restrizioni di cultura ma anche e soprattutto a causa dell’inadeguato insegnamento didattico che fin dai primi anni viene fornito in asili e scuole.

Per tale motivo sono nate anche scuole ‘bilingue’, istituti che portano numerosi vantaggi in termini di flessibilità, concentrazione, abilità nel ricordarsi le cose e nel passare da un argomento all’altro, di apertura mentale e soprattutto di tolleranza. Istituti che però, senza un lavoro continuativo svolto in famiglia, rimangono solo scuole.
“Io sono entrata a lavorare a scuola negli anni 80 – spiega la dirigente dell’ufficio scolastico interprovinciale di Lucca e Massa Carrara Donatella Buonriposi – in quegli anni, pensate, era ancora in vigore il programma didattico del 1955 e da allora, fino ad oggi, di cambiamenti e di passi in avanti ne abbiamo fatti eccome. Per le lingue, però, rispetto a tutto il resto, abbiamo perso veramente qualche punto. La lingua inglese, ovvero una delle più parlate al mondo, divenne la lingua straniera per eccellenza già dagli anni 70, anni quelli, di grande fermento e rivoluzioni. Ma la scuola cambiò davvero agli inizi degli anni 90 con la legge 148, legge che prevedeva in ogni classe almeno tre insegnanti, una delle quali doveva conoscere per forza anche la lingua inglese. Fu un periodo difficile – continua – perché noi insegnanti, uscite dalle scuole magistrali, l’inglese lo conoscevamo poco e non eravamo in grado di rispettare quel nuovo modulo didattico. Oltre ai tre insegnanti allora se ne aggiunse un altro, uno specialista, che aveva il compito di insegnare ai ragazzi la lingua straniera. Non fu affatto semplice perché la scuola non era abituata a certi meccanismi, e anche noi insegnanti dovemmo abituarci a lavorare in gruppo, mettendoci d’accordo sul programma da seguire. Dopo la legge 148 arrivò invece quella Moratti, che prevedeva l’insegnamento della lingua straniera fin dai primi anni di età. Dopo allora non ci sono state grandi rivoluzioni fino alla legge della buona scuola, legge che in realtà non è stata una vera e propria rivoluzione ma ha saputo aggiungere novità a campi veramente essenziali. Siamo sempre cresciuti col concetto che prima si studia e poi si lavora. L’alternanza scuola-lavoro prevista da questa legge invece cambia prospettive, facendo capire ai ragazzi che lo studio e il lavoro possono essere un’alternanza. Ma è proprio da questa alternanza, però, che vengono fuori le lacune: i ragazzi si ritrovano spesso a dover lavorare nelle aziende, aziende che la maggior parte delle volte hanno a che fare con clienti inglesi, cinesi, russi. Ci siamo resi conto che molto probabilmente una solo lingua non basta, e che la scuola fa veramente fatica a far uscire dalle sue mura studenti che hanno effettivamente una buona conoscenza delle lingue straniere. E’ importante, quindi, far apprendere almeno un’altra lingua ai ragazzi fin dai primi anni d’età”.
All’incontro è intervenuta anche Alda Trafiletti, specializzata in glottodidattica infantile alla Sapienza di Roma, attraverso l’associazione Languages for youg minds di cui è presidente. Insegna inoltre inglese e francese con il metodo Hocus&Lotus ai bambini dai sei mesi ai 10 anni. “Purtroppo i metodi di didattica tradizionale – spiega – permettono un’archiviazione nella memoria esplicita del cervello, luogo in cui ci sono conoscenze poco naturali e non spontanee che ricordiamo con molto sforzo e fatica. La didattica psico-linguistica, invece, applica all’insegnamento della seconda lingua gli stessi identici metodi utilizzati per quella madre grazie ad esperienze concrete e soprattutto ripetitive nel tempo. Le archiviazioni date da questo tipo di insegnamento finiscono nella memoria implicita, là dove sta anche il nostro saper andare in bicicletta, che facciamo ormai da tempo senza la minima preoccupazione o sforzo mentale. Una struttura didattica basata su narrazione e ripetizione – conclude la dottoressa – è sicuramente molto efficace per apprendere fin dai primissimi anni di età una seconda lingua”.
Un bel po’ di pazienza e più film guardati in lingua originale renderebbero quindi sicuramente molto più elastici anche noi più adulti e magari, per una volta, manderemo quel turista proprio dove ci aveva chiesto.

Giulia Prete