Al Lucca museum l’arte politicamente ‘scorretta’ di Sironi

Visionario, allineato politicamente, eppure certamente indipendente, a tratti imprevedibile, entusiasta e poi d’un tratto profondamente greve, fino a degradare in forme depressive in dimensioni di una parvenza esoterica. E’ l’istantanea, complessa e fascinosa, di un artista – Mario Sironi – che vive turbolenze interiori incessanti, arrancando costantemente alla ricerca di una sintonia con se stesso. A tracciarla è Maurizio Vanni, direttore del Lu.C.C.A (Lucca center of contemporary art), che racconta la mostra – curata da Fabio Benzi – dedicata al disegnatore politico de Il Popolo d’Italia, il quotidiano ufficiale del partito fascista, ospitata al museo fino al prossimo 3 giugno. L’esposizione, denominata appunto Mario Sironi e le illustrazioni per Il Popolo d’Italia 1921-1940, vuole essere una selezione accurata di 100 opere scelte tra le quasi mille illustrazioni realizzate dall’artista.
In questo senso, propone le vignette eseguite perlopiù tra il 1921 e il 1927 usando tecniche come china, biacca, matita, tempera e collage su carta e che hanno come bersaglio partiti avversari, a partire da quello socialista fino a quello popolare senza dimenticare la vecchia classe governativa liberale, la stampa filodemocratica, le ricche democrazie dell’America, della Francia e dell’Inghilterra nonché il comunismo russo. E, come spesso accade, c’è una donna all’inizio della storia, intenta a tirare gli immaginifici fili di un successo che deborda nel compiacimento dell’autocelebrazione, fino a trascinare Sironi dalla vetta all’oblio.
“Parliamo di Margherita Sarfatti – esordisce Vanni, intento a contemplare le nuove opere d’arte custodite nelle sale del Lu.C.C.A museum – donna ambiziosa, quasi arrivista, salita agli onori della cronaca anche e soprattutto per essere stata amante del duce. Sironi deve a lei – collezionista, manager, critica – la possibilità di ideare e lanciare Novecento Italiano. Un’esposizione, questa, contrassegnata dal germe dell’impertinenza: “Qui intendiamo mostrare la grande padronanza del linguaggio segnico di Sironi, in chiave politicamente scorretta. Del resto, non avrebbe mai pubblicato su Il Popolo d’Italia se non fosse stato così. Non dobbiamo dimenticare come l’artista abbia pagato a caro prezzo questa esperienza, minandosi la carriera: prima ancora della fine del fascismo, infatti, era già stato parzialmente isolato. Eppure, se fosse qui davanti a noi, si direbbe pronto a replicare quell’esperienza domani stesso. Il motivo? Un personaggio come lui sposa la causa, fino quasi a sovrapporsi ad essa. Non può accettare l’imposizione di Mussolini: per evitare la censura fa una cosa folle, tipicamente artistica: ad ogni richiesta tematica decisa dal partito, risponde con 4 o 5 vignette diverse. In definitiva, non ha mai avuto imposizioni o censure, ma solo tematiche”. Sono vignette, quelle di Sironi, pensate per aggredire tutto quello che era avverso al partito nazionale fascista, in Italia ed oltre confine. “I temi sono questi – prosegue Vanni – cioè l’attacco agli altri partiti ed agli avversari internazionali. Eppure li sviluppa continuando a fare cose diverse: è in questo senso che possiamo definirlo un visionario. C’è, nel suo tratto, un’ironia di fondo sapiente e micidiale, legata ad una grande sapienza intellettiva, quella stessa lucidità che lo porta a fare vignette così diverse per temi molto simili. Sironi usava due modalità segniche: la china per i particolari, cercando un gioco luci ombre, e la matita per i tratti più marcati ed espressivi. In questo modo, unisce la peculiarità del segno all’espressione del gesto”. Altro elemento unico per il tempo è la presenza di un colore nelle vignette: “Per lui però non erano sol-tanto bozzetti, ma opere finite, compiure, definite e definitive. Il colore – precisa il Direttore del museo – staccava l’immagine dal fondo, donandole forza e imponendole più di un senso”. Ulteriore tratto che vale a contraddistinguere l’arte di Sironi è il suo riferimento al passato. “Non guarda solo il Rinascimento (Ritorno all’Ordine tipico di alcune idee artistiche di quegli anni): subisce for-temente l’influenza di Goya ed ammira la pittura europea del momento, cercando di portare la monu-mentalità scultorea nel disegno. Le sue vignette hanno grande forza espressiva: le figure sono rigide ed al tempo stesso magnetiche, perché alterna tratti raffinati ad altri più spigolosi e rividi”. Poi c’è il grande tema del rapporto tra luce ed ombra: “Il suo interesse – spiega Vanni – non è per la luce: non è interessato a studi caravaggeschi. Lui intende unire i due elementi, luce e ombra, fino a squarciare l’oscurità per farne uscire bagliori, forme e figure geometriche. C’è molto simbolismo in questo senso, in Sironi. Forse, potremmo spingerci fino a parlare di esoterismo. Tra le pieghe, resta intellegibile il desiderio di manifestare anche nel non visibile i suoi pensieri”. Il disegno, per Sironi, è anche e soprattutto la scialuppa alla quale appigliarsi, per non rimanere avvi-luppato dai flutti della sua sofferenza intima. Il tutto, fino a quando la sua mentore – Marina Sarfatti, per l’appunto – si lascia ingolosire dall’autocompiacimento, avvitandosi dopo essere salita in alto e tra-scinando a fondo molti, troppi degli artisti che erano con lei, compreso Sironi. “Sarfatti – ricorda Vanni – diventa amante del duce e ottiene di creare un gruppo di partito: sceglie 7 grandi artisti, tra i quali Sironi e crea Novecento, portandolo in giro, da Milano alla Biennale di Venezia, ma fa l’errore grande di non calcolarne i limiti. Gonfia tutto all’inverosimile ed il contesto culturale italiano si ribella. Così, Mussolini stacca la spina e già nel ’28 si sorprende emarginata. Sironi passa dunque dalla gloria al nulla e non è un diplomatico, uno che sa o vuole riciclarsi. Già nel ’34 cambia stile, evolvendo in chiave espressionista. La seconda parte della sua carriera – quella contrassegnata dai dipinti ad olio e dai grandi murales – fa parte di un pensiero che, pur evolvendo, nasce in precedenza. Un modo d’essere che esprime il rapporto con un Paese in ribellione, ma che continuava a guardare rigorosamente in avanti: un po’ quello che dovremmo fare oggi. In questo senso Sironi e questo momento storico ci forniscono un’apertura importante: la cultura può diventare la bandiera di un Paese se viene messa in condizioni di confrontarsi con il mondo, senza tuttavia dimenticare chi siamo stati”.
Paolo Lazzari