
Nove repliche, tutte sold out. È calato il sipario oggi pomeriggio (9 maggio) al ridotto del Teatro del Giglio di Lucca su Una tazza di mare in tempesta, spettacolo che Roberto Abbiati porta in giro per l’Europa dal 2003, quando il festival di ricerca Armunia di Castiglioncello ha scelto di dare fiducia all’idea di questo ‘artigiano della scena’ originario della Brianza e ha prodotto la sua storia. O meglio, la sua chiave di lettura – e quindi di racconto – di una storia che è divenuta archetipo della coscienza occidentale: Moby Dick di Melville.
La caccia ossessiva alla balena bianca condotta dal capitano Achab, il naufragio, la voce di Ismaele, unico sopravvissuto. Un romanzo di oltre 700 pagine che attraverso lo stupore del teatro di figura si fa sintesi: lo spettacolo di Abbiati dura 17 minuti e viene proposto a un massimo di 22 persone alla volta. A una sola condizione: fare silenzio. Grandi e piccoli uniti da quell’unico patto per fare spazio all’esperienza di una narrazione totale. Le scene sono, al contempo, spazio per la platea: una stanza delle pareti di legno, angusta, con qualche finestrella e 22 sgabelli. Né più né meno. Il pubblico sta lì, con gli occhi sgranati, nella penombra. E l’incipit più noto del mondo, “Chiamatemi Ismaele”, rompe l’attesa della parola che precede l’inizio di una storia che arriva insieme al volto di Abbiati. Trasformista di mestiere, l’attore sembra animare col solo roteare degli occhi i piccoli oggetti che popolano la stanza – sagome di vele, scheletri di balene – e scivolano tra i flutti. Le luci accompagnano le sequenze, come lampi sul mare in tempesta. E il pubblico resta lì, incantato, protetto come in una stiva di una nave.