The Good, The Bad and The Queen, spettacolo al Summer






L’alternative rock si impossessa di piazza Napoleone con la fiammeggiante performance di The Good, The Bad and The Queen. La superband formata da Damon Albarn (ex frontman dei Blur prima e dei Gorillaz poi), Simon Tong (ex chitarrista dei Verve), Paul Simonon (ex bassista dei leggendari Clash) e da Toni Allen (batterista icona dell’afrobeat, per anni al fianco di Fela Kuti), non tradisce le attese.
“Se non venite a vederci siete veramente dei pazzi”, aveva detto Albarn non più tardi di ieri, appena arrivato in Toscana. E i fedelissimi l’hanno preso in parola. Tanta, del resto, l’attesa per una formazione che, in Europa, sta imperversando con show destinati a rimanere pietre miliari nella memoria personale dei fan (l’ultimo, al Bataclan, ha riscosso un enorme successo, ndr).
Al cospetto di circa 2mila spettatori il gruppo propone una set list che scava nel secondo lavoro, uscito a novembre 2018 con il titolo Merrie Land. E’ una strada che si muove in più direzioni, senza mai perdere la bussola e l’identità di fondo: dalla tradizione brit all’afrobeat, facendo un salto nel reggae ed un’incursione nel punk tipicamente inglese. E pensare che, ormai, si erano quasi perse le speranze di poter assistere ad un ritorno sulle scene della band, considerato il lungo silenzio in cui era stata avvolta per ben undici anni, la data di uscita del primo album. Ma quando c’è di mezzo un personaggio come Damon Albarn è sempre lecito attendersi fuoripista e ripartenze. Il nuovo lavoro rappresenta una critica aspra all’attuale congiuntura politica, economica e sociale in Gran Bretagna. Sul palco ce n’è abbastanza per mettere trasversalmente d’accordo fan che raccolgono diverse generazioni, accomunati dal desiderio di rivedere dal vivo gli idoli d’un tempo e dalla curiosità galoppante per l’unica data italiana del gruppo. Secondo la critica di settore, quello di Albarn e compagni è un’esercizio d’equilibrismo, sia nei contenuti che nei modi. Nei contenuti, perché il cantante, da sempre osservatore arguto della situazione vissuta nel Regno Unito, prova ad affrontare i risvolti della Brexit senza mai entrare nei singoli temi sciogliendo le briglie: nella missione l’aiutano, egregiamente, gli unici compagni di viaggio possibili. Non i Blur, che per storia e radici personali male si sarebbero coniugati con il messaggio veicolato da un concept album; non i Gorillaz, che nel frattempo erano già all’opera su un nuovo progetto discografico.
Buoni, cattivi e regine si muovono come trapezisti anche quando si tratta di sound: guidati in studio dal geniale Tony Visconti, per anno il braccio destro di David Bowie, fanno rimbalzare in piazza momenti di pura spensieratezza che si alternano ad un sottofondo per lo più malinconico. Quando i volumi si sbloccano, riabilitando spasmi di rock puro, il pubblico – moltissimi, come inevitabile, gli anglosassoni – si lascia andare, ballando ed intonando all’unisono pezzi come Nineteen Seventeen, Gun to the head e The great fire. Appiccicando insieme molte prime donne, certo, si corre anche qualche rischio, ma non è il caso del gruppo: i pezzi di bravura in chiave solistica, semmai, sembrano sempre parte integrante di un’unica, intensa, performance. Arrivato alla mezza età, Albarn – che ammansisce la folla chiamando cori continui – sembra fare i conti con la sua vita e con quelle di un’intera generazione che a cinquant’anni, come lui, si sente borseggiata dei punti di riferimento: un mood che traspare apertamente nei riff e negli arpeggi della melodica Ribbons. Un’inquietudine che monta e che, forse, può trovare soluzione proprio nella saggezza riversata nei testi: The last man to leave, in questo senso, appare certamente il manifesto della volontà di lottare inciampando sul proprio cammino, quando tutti scelgono scorciatoie.
“Dovevamo trovare una ragione valida per tornare in studio a registrare – aveva detto Albarn prima dell’uscita del disco – e l’abbiamo trovata con la Brexit: una ferita putrescente. I sudditi di sua maestà – confessava qualche mese fa – sono stati sviati ed ingannati con un referendum che mirava soltanto a distogliere l’attenzione dai problemi reali”. Dichiarazioni che si ritrovano nei versi delle canzoni e nel sound a tratti inconfondibilmente inglese della band, agile nel muoversi sul fertile terreno del brit pop e del brit rock.
Così il titolo cinicamente ironico dell’album – per la band non c’è proprio motivo per stare allegri, dall’altra parte della Manica – diventa il pretesto giusto per mettere su una serata di grande musica ed impegno civile.
Le foto di Andrea Simi