Da banche popolari a Spa: a rischio lavoro e territorialità

30 gennaio 2015 | 09:42
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Da banche popolari a Spa: a rischio lavoro e territorialità

Trasformare dieci banche popolari con un patrimonio superiore ad 8 miliardi di euro in Spa, entro i prossimi 18 mesi: questo il disegno che emerge dall’ultimo decreto legge (numero 3 del 24 gennaio 2015) proposto dal governo Renzi e che, nelle ultime settimane, è diventato epicentro di un dibattito incessante. Una discussione che rischia fortemente di interessare anche Lucca, dal momento che la Cassa di Risparmio di Lucca, Pisa e Livorno fa parte del Gruppo Banco Popolare, realtà che in Italia conta 2mila sportelli, 20mila dipendenti e 200mila soci. Per cercare di delineare i contorni di una questione che per certi aspetti rischia di rimanere un garbuglio inestricabile, destando legittime preoccupazioni da parte della piccola-media impresa e dei risparmiatori, abbiamo chiesto il parere della professoressa Michela Passalacqua, titolare della cattedra di diritto pubblico dell’economia all’interno del dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Pisa.

Professoressa, il premier Matteo Renzi ha parlato di momento storico che chiude finalmente 20 anni di dibattito. Il ministro Padoan ha affermato che in questo modo ci si pone all’altezza delle sfide europee e mondiali. E’ davvero questa la strada da seguire?
“Senza dubbio il governo ha inteso dare una forte scossa al sistema, cercando di superare la crisi di rappresentatività che effettivamente può aver coinvolto le banche popolari di “maggiori dimensioni”. Mi spiego meglio, come è noto, uno degli elementi tipici della banca popolare è avvalersi del sistema di voto capitario piuttosto che del sistema capitalistico proprio delle Spa, questo significa che nelle popolari ogni socio “conta” per un voto, e nessun socio può possedere più dell’1% del capitale sociale, mentre nelle società per azioni, i soci che detengono più capitale “contano” di più, sono così in grado di esprimere il management e di influenzare le scelte aziendali. È, dunque evidente che il sistema capitario si coniughi alla perfezione con l’esigenza di cooperazione e dunque con la soddisfazione degli interessi del territorio in cui risiedono i soci. Il problema è che se i soci diventano molti, e risiedono in territori vasti, possono emergere delle contraddizioni, nel senso che vi è il rischio che nell’assemblea della società decidano in pochi, creandosi un problema di scarsa partecipazione e di frustrazione dell’originaria vocazione della banca popolare stessa. Quello che molti non dicono, è che la riforma serve per venire incontro alle esigenze espresse da tempo da parte di Banca d’Italia. Quest’ultima si è accorta che i gruppi popolari troppo spesso assomigliano più alle banche aventi forma giuridica di Spa che a quelle territoriali, nate dalla tradizione italiana ed europea per favorire lo sviluppo locale. A dire il vero però, il precursore in materia è stato il Fondo Monetario Internazionale, che da tempo evidenzia le criticità delle banche popolari di maggiori dimensioni (Imf Country Report 13/299 del settembre 2013)”.
E’ il classico problema italiano dell’etichetta che non corrisponde alla sostanza?
“Mettiamola in questi termini: non puoi godere dei benefici di una banca popolare se ti comporti come un’impresa finanziaria nazionale o addirittura internazionale. Eppure questo è quello che accade in una pluralità di casi che sono finiti sotto la lente d’ingrandimento di Bankitalia. In questo modo non esistono margini per cooperare: premetto che se ti comporti come banca popolare radicata sul territorio, incentrata sul perno del voto capitario (letteralmente, una testa un voto), i conti tornano. Il discorso non vale più, invece, se cominci a pensare in un’ottica di massimizzazione del profitto, agendo in un panorama che non fa parte del tuo sostrato e delle tue funzioni.
Ma è l’aggregazione bancaria la risposta giusta alla crisi del credito?
“Su questo nutro grosse perplessità, tant’è che la crisi ci ha consegnato la massima To big to fail, a dimostrazione che banche troppo grandi possono arrecare al sistema – e ai contribuenti – più problemi che benefici. In realtà un anticorpo nel sistema italiano esiste già ed è rappresentato proprio dalla costituzione di banche piccole, vicine ai bisogni del mondo imprenditoriale e delle famiglie. L’Italia infatti non ha patito subito le negative ripercussioni della crisi: negli anni 90′, la cosiddetta foresta pietrificata delle nostre banche pubbliche ha fatto sì che arrivassimo più tardi ad utilizzare gli strumenti della finanza creativa”.
Il rischio di smantellare le banche territoriali rimpiazzandole con gruppi internazionali è reale?
“Intanto l’intervento è sensato, in linea di massima: non si tratta certo di un fulmine a ciel sereno perché Renzi, come detto, ha soltanto recepito un’istanza che esiste da anni. Certo, in questa partita le banche, che sono imprese di rilievo pubblico, hanno una fetta di responsabilità nell’essere sempre più attratte dai luccichii della finanza globale; d’altra parte è la stessa logica del mercato, in cui il regolatore le ha da tempo sospinte, a costringerle a rivolgersi verso mercati più remunerativi, guadagnando troppo poco nel tradizionale mercato bancario, così tralasciando la loro funzione di supporto al territorio. Venendo alla sua domanda, non c’è dubbio che oggi le banche popolari italiane non siano scalabili dai grandi operatori stranieri, a causa dei limiti al possesso di capitale di cui dicevo prima (nessuno può detenerne più dell’1%); una volta trasformate in Spa, diventeranno contendibili sul mercato (di cui adesso rappresentano circa il 40%). In altre parole subiranno quanto già avvenuto per le Casse, oggetto in passato di operazioni simili. Potremmo invece discutere della soglia degli 8 miliardi di euro, chiedendoci su quali presupposti sia stato determinato tale parametro meramente quantitativo. Ecco, mi risulta che il criterio degli 8 miliardi sia stato individuato in modo meramente empirico”.
Nel senso che il governo si è fatto tornare i conti?
“Nel senso che la scelta di questa soglia non trova giustificazioni precise. In questo modo vengono ‘pescate’ troppe banche popolari, a prescindere dall’effettivo riscontro della territorialità. Da qui le legittime preoccupazioni dei soggetti coinvolti dalla riforma. Allora, o si alza questa soglia, oppure si cambia criterio. Una precedente proposta del Parlamento alludeva a coinvolgere solo gli istituti quotati in borsa: può essere una strada percorribile. Un altro parametro? Guardiamo al numero dei soci che queste banche riescono ad annoverare. Di sicuro serve una soluzione equilibrata, per non correre il rischio di svendere i nostri istituti in nome di logiche meramente capitalistiche”.
Ed infatti è di ieri la dura presa di posizione di Assopopolari: dicono che il decreto porterà ad una flessione del Pil tricolore di tre punti percentuali, oltre a perdite per 80 miliardi di euro di crediti e 20mila esuberi.
“Si tratta di preoccupazioni condivisibili: se le banche si trasformano in Spa diventano contendibili, si genereranno operazioni di concentrazione e di conseguente “snellimento” delle strutture aziendali: il rischio concreto è quello dei tagli al personale. Il tema è strettamente connesso alla soglia di cui si diceva: bisogna capire se il criterio degli 8 miliardi di euro sia ottimale, come non credo, ai fini della tenuta di tutto il sistema. Dall’ultima relazione annuale di Banca d’Italia emerge l’esistenza di 37 banche popolari (la metà delle quali appartenenti a gruppi): se, come sostiene il governo, dieci di queste verranno trasformate, il colpo sarà certamente duro”.
C’è il rischio che qualche attore esterno approfitti della situazione per portarsi via tutto?
“E’ un rischio reale, che potrebbe comportare perdite di migliaia di posti di lavoro. Il testo va ripensato a livello normativo, proprio per impedire ai grandi gruppi stranieri di venire qua a comprarsi le nostre banche. Ma in realtà esistono molte altre problematiche connesse: pensiamo, ad esempio, ai cosiddetti prodotti cooperativi. Le Spa non potranno più garantirli, su questo siamo d’accordo. Che ne sarà invece di quelli già erogati, in assenza di una normativa transitoria? Potrebbe aprirsi un contenzioso gigantesco. Ancora: come coinvolgere tutti i soci nelle decisioni, se i soci sono una miriade? Servono correttivi idonei: bisogna alzare il numero massimo delle deleghe conferibili a un socio (e questo Renzi lo ha fatto alzando il numero a 20) e implementare l’utilizzo di strumenti informatici per collegarsi contemporaneamente dalle varie parti del paese. Solo così può essere garantita la rappresentatività”.
Dica la verità: se fosse un imprenditore o anche solo un piccolo risparmiatore, dormirebbe sonni tranquilli?
“Sgombriamo il campo da un dubbio di fondo: il problema non è quello del rapporto territoriale con la struttura, perché quelle restano lì, non si muovono. La questione rimane quella dell’accesso al credito: bisogna capire se le banche decideranno di erogare i fondi che raccolgono sul territorio, con ricadute benefiche per tutta la comunità, o se il nuovo sistema di voto intaccherà questa mission. Il rischio che le nuove aggregazioni guardino solo alla massimizzazione del profitto esiste e deve essere evitato, perché le comunità hanno bisogno di linfa. Ricordiamoci però che le vere banche territoriali sono quelle di Credito Cooperativo che, ad oggi, sono 385 in Italia”.
Per il sostegno al territorio servono anche progetti imprenditoriali da finanziare.
“Senza l’aiuto della classe imprenditoriale nulla può essere fatto. Non è che le banche, di loro iniziativa, si mettono a creare progetti: il problema è che troppi imprenditori, oggi, non sono degni del nome che portano. Le banche potrebbero essere coinvolte in importanti progetti di riqualificazione urbana, oppure in settori remunerativi come la gestione dei servizi pubblici a rete, come quello dei rifiuti, con ricadute positive anche in termini occupazionali”.
La Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca tuona contro un aumento delle tasse che rischia di compromettere la mission dell’ente. E’ così, secondo lei?
“Assolutamente sì: è già assurda la tassazione attuale cui questi enti sono sottoposti, figurarsi un aumento. Le Fondazioni si sono restituite una missione precisa sulla base della riforma Amato e bisogna ricordare a tutti che quelli sono soldi pubblici, che servono per finanziare opere utili alla collettività. Condivido pienamente la loro battaglia”.

Paolo Lazzari