Sanità, rete dei comitati contro la riorganizzazione

Proteste contro la riorganizzazione della sanità e il nuovo ospedale. La Rete dei Comitati Sanità Lucchese,
aderisce alla manifestazione Coordinamento Toscano Diritto alla Salute in programma il prossimo 20 giugno: il corteo di protesta partirà alle 10 da piazza Santa Maria e attraversando il centro storico si concluderà in piazza Cittadella. “La situazione economico-politica mondiale, europea e italiana è dominata dall’attacco sferrato negli ultimi anni dalla grande bestia, il capitale delle multinazionali, banche, governi e associazioni di potere del tipo Bilderbergers allo stato sociale e ai diritti fondamentali dell’uomo – spiega la Rete dei comitati nell’illustrare i motivi della protesta -: diritto all’esistenza e sopravvivenza, all’educazione, al lavoro, alla salute, e alla libertà di pensiero e di azione nel rispetto dei doveri verso la società, l’ambiente e gli animali. Noi ci occupiamo di diritto alla salute, previsto dall’articolo 32 della Costituzione italiana, che fino al 1992 era garantito dalla legge 833/78 per mezzo delle Usl, rette da comitati di gestione nominati dalla Conferenza dei sindaci dei comuni interessati, che assicuravano una sanità uguale in tutte le regioni d’Italia sotto il controllo del Ministero della sanità e rispondente alle esigenze delle comunità locali. I comitati di gestione chiaramente avevano un interesse politico locale, che purtroppo si è prestato a una conduzione economica fallimentare per l’abuso clientelare dei fondi pubblici. Il decreto legislativo 502 del 30-12-92 (ministro liberale De Lorenzo) pensò di risolvere questo problema trasformando le Usl in Asl, rette da direttori generali, sanitari e amministrativi con contratto di diritto privato, mantenendo il resto dei dipendenti dell’azienda a diritto pubblico. La privatizzazione delle Asl, se da un lato ha posto parzialmente fine alla gestione clientelare delle finanze pubbliche, dall’altro ha sostituito ciò che era un servizio con il concetto di produrre e vendere la sanità come una merce, guidata da criteri di budget e risparmio”, sostengono i comitati.
“Con ciò – prosegue la nota – ha fatto leva sull’interesse dei direttori ai risparmi di gestione, avendo essi un premio di produzione proporzionale ai risparmi che configura un interesse privato in atti di ufficio. Su questa situazione si è inserito il decreto legislativo 229 del 19 giugno del 99 (ministro dell’Ulivo, ex-democristiana, Rosi Bindi) che ha trasferito tutte le competenze in materia di sanità alle Regioni. A differenza di quanto prevede un’organizzazione democratica dello Stato in cui i poteri sono divisi fra i vari organi, la Regione accentra attualmente: la programmazione attraverso il piano sanitario regionale, la nomina diretta dei direttori della Asl i quali a loro volta possono nominare i primari delle varie specialità senza concorso ma per chiamata, e che a loro vece possono scegliersi i collaboratori; il controllo sulla gestione della sanità locale. La conseguenza di tutto ciò è un’organizzazione in cui nelle 22 regioni italiane esiste una sanità diversa una dall’altra, e di tipo monocratico, per la quale il governatore della regione può, senza tener conto delle comunità minori della sua Regione, organizzare la sanità con il criterio del massimo risparmio, nonché gestirla senza resistenza interna degli operatori sanitari che sono sottoposti alla ricatto di essere ostacolati nella carriera e nello svolgimento normale della loro attività se non si adeguano alle direttive regionali, fino al deferimento in commissione di disciplina “lesione dell’onorabilità” dell’istituzione o licenziamento, avendo il governatore il controllo su tutto il personale attraverso la struttura verticistica piramidale dei direttori”.
“Da questa situazione – prosegue la nota della rete dei comitati sanità – nasce la decisione della Regione Toscana con delibera di Consiglio numero 384 del lontano 25 novembre 1997 (assessore alla sanità Enrico Rossi) di de-ospedalizzare la sanità attraverso l’encomiabile proposito di incrementare l’assistenza sul territorio e a domicilio, l’istituzione dell’ospedale di comunità e simili strutture residenziali protette. La carriera di un uomo politico dipende dalla sua capacità di dire il contrario di quello che pensa e fa, e Rossi ha goduto di una buona carriera politica. Nella realtà la trasformazione dell’ottica sanitaria, nata sul modello dell’assistenza psichiatrica dopo la legge 180/78, si è rivelata incapace di fornire un’assistenza adeguata sia territoriale che ospedaliera, nella prevenzione e nella fase acuta della malattia ma soprattutto nella fase post-acuta e di riabilitazione. Dietro l’apparenza del regalo di costruire quattro nuovi ospedali tecnologicamente avanzati, la drastica riduzione dei posti-letto totali (dai precedenti circa 4 al 2,5 per mille abitanti, quando la media europea si aggira sul 4,5), la riduzione dei tempi di degenza media (dai 7-8 ai 5 giorni) e la mancata previsione di letti da destinare alla fase post-acuta e riabilitazione nei nuovi ospedali al di là di strutture non-ospedaliere come l’impropriamente detto ospedale di comunità, sono in contrasto con la legge 135 del 07-agosto 2012 (cosiddetta legge Balduzzi) che stabiliva uno standard di 3,7 e di 0,7 posti-letto, rispettivamente. Tre dei quattro nuovi ospedali (Massa, Lucca e Pistoia) sono stati costruiti in zone inidonee alla cementificazione perché o invarianti agricole, o inquinate o paludose e galleggianti sull’acqua sotterranea. Le finestre devono rimanere anti-igienicamente chiuse durante il giorno a causa dell’aria condizionata e per la rumorosità delle strade prospicienti e aperte dal personale solo una volta al giorno. A Lucca è impossibile costruire un eliporto e la viabilità è critica per la presenza di passaggi a livello e semafori. Da un punto di vista finanziario i quattro ospedali sono stati costruiti con il sistema del project financing che garantisce al privato costruttore un ritorno economico legato alla gestione dei servizi non-ospedalieri per 19 anni, e dal quale il privato ricava non solo la cifra che teoricamente avrebbe scontato sul costo di costruzione (raddoppiato dalla previsione dell’accordo di programma a causa delle varianti in corso d’opera), ma anche gli interessi che il costruttore deve pagare alla banca da cui ha preso in prestito la somma non avendo esso tirato fuori una lira di tasca sua, nonché il cosiddetto rischio di impresa: quale rischio, se ciò che garantisce alla banca il prestito è l’ospedale stesso di proprietà della Asl? I vecchi ospedali dismessi, a norma della legge 67 del 11 marzo 1988 in base alla quale il ministero della Sanità ha stanziato gran parte dei fondi necessari alla costruzione dei nuovi ospedali, devono mantenere la destinazione di uso pubblico, se non più propriamente sanitario, ma già le Asl e i comuni interessati hanno anticipato l’intenzione di cambiare la destinazione da pubblico a privato, per “valorizzarne” la vendita con la costruzione di alberghi ed esercizi commerciali”.
Ma le ragioni della protesta vanno ben al di là della realizzazione dei nuovi ospedali. “Con la delibera di giunta 1235 del 28 dicembre 2012 e con l’attuale legge 28 del 16 marzo 2015 la Regione Toscana ha disposto la chiusura o il declassamento dei piccoli ospedali periferici, come quello di Portoferraio, S. Marcello Pistoiese, della Lunigiana, Valle del Serchio, Maremma e Mugello – spiega ancora la rete dei comitati -, con la chiusura dei punti-nascita al di sotto di 500 nati/anno, nonché la riduzione di numero dei distretti socio-sanitari, in aperto contrasto con l’annunciata intenzione di sostituire l’ottica ospedalocentrica con quella territoriale. Con l’attuazione dell’area vasta le Asl toscane vengono ridotte da 12 a 3, con l’allontanamento sempre maggiore della dirigenza dall’utenza territoriale e dagli operatori locali, il rigonfiamento di figure a contratto di diritto privato alle dirette dipendenze dell’assessore alla Sanità ma con l’annunciata messa in esubero di circa 2000 dipendenti a contratto pubblico fra medici, infermieri e organizzazioni sindacali. Mentre questa vantata riorganizzazione e razionalizzazione della sanità priva i cittadini delle zone periferiche di servizi essenziali, sovraccarica di lavoro il personale degli ospedali delle tre aree centrali. Nel frattempo le liste di attesa per le prestazioni sanitarie vengono periodicamente bloccate per la mancanza di fondi necessari per pagare sufficiente personale, configurando così il reato di interruzione di pubblico servizio e dirottando apertamente l’assistenza verso la sanità privata. Per fare cassa infine la Regione Toscana è ricorsa all’introduzione di un aggiuntivo ticket di digitalizzazione di 10 € che non risulta presente in altre Regioni. In sintesi, mentre si sprecano soldi in inutili e dannose cementificazioni, si risparmiano sulla qualità ed efficienza del servizio. Sulla base di questi fatti noi contestiamo al governatore Rossi con quale coerenza egli ritiene di essere espressione di un partito che dovrebbe tutelare gli interessi delle classi meno abbienti e non di quelle più agiate che possono permettersi tranquillamente di fare a meno del servizio sanitario pubblico. Rossi dovrebbe essere rosso non perché dice di essere di sinistra ma di vergogna e dimettersi dal suo incarico. Si sa che la vergogna non è un sentimento che appartiene ai politici e sperare che egli si comporti in questo modo è una pia illusione: bisogna cacciarlo via o almeno costringerlo a venire a patti. Sarà dura, dato il quadro politico della Toscana e dell’Italia oggi, ma bisogna riuscirci per non essere schiacciati”.