Il vescovo: S. Paolino festa di unità e fratellanza

12 luglio 2016 | 10:00
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Il vescovo: S. Paolino festa di unità e fratellanza

San Paolino festa dell’unità, ma anche dell’accoglienza e della formazione delle coscienze da uno sguardo rivolto ai migranti come ad una occasione di arricchimento. Una sfida per la Chiesa ma anche la comunità, che deve sempre più poter guardare alle “periferie”, quelle del tessuto urbano ma soprattutto dell’umanità. E’ uno dei temi principali che l’arcivescovo Italo Castellani ha voluto sottolineare nell’omelia del Solenne Pontificale per la festa del patrono della città e che pubblichiamo di seguito integralmente.

* “Così dice il Signore: ‘Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue” (Is. 66, 18).
Il testo dell’Antica Scrittura appena annunciato in questa Divina Liturgia – che ci convoca come Chiesa di Lucca nella Festa di S. Paolino, Vescovo e martire, patrono principale della Città e dell’Arcidiocesi – sembra stridere con gli avvenimenti dei nostri giorni e la vita quotidiana.
Piuttosto che a un “radunarsi di tutti i popoli e tutte le lingue” assistiamo a divisioni e conflitti in ogni dove e a ogni livello. Sembra quasi fallimentare la stessa missione di Gesù, il Figlio di Dio, che nella “pienezza dei tempi” (Gal 4, 4), entra nell’umanità con la specifica missione di “salvare” (Gv 12, 47) e “riunire tutte le genti” (Zc 14, 2): missione ben ravvisabile nella simbologia del ‘pastore’ offertaci dalla pagina del Vangelo ascoltato: “Io sono il buon pastore… ho altre pecore che non sono di questo ovile, anche queste io devo condurre … e diventeranno un solo gregge” (Gv 10, 16).
Alla comunità cristiana, ad ogni uomo di buona volontà, è data la missione di continuare a ‘scrivere’ il Vangelo di Dio nell’oggi della nostra storia. La storia dell’umanità è un parto permanente: a noi è dato di partecipare “alle doglie del parto” (Rm 8, 22), da cui nasce una vita sempre nuova.
In questa ottica e prospettiva nell’odierna Festa del Patrono tengo a mettere a tema due aspetti della nostra vita sociale ed ecclesiale, partendo da due interrogativi che siamo soliti ascoltare ‘per strada’ nei colloqui che intessiamo nella quotidianità: “Dove andremo a finire? Dove va la nostra chiesa di Lucca?”. “Dove andremo a finire?”
L’interrogativo “Dove andremo a finire?” – che ci siamo posti nel Convegno Diocesano nel Giugno scorso – ha preso avvio da due fenomeni, tra altri, che turbano i nostri sonni, fino a toglierci il respiro: l’inarrestabile crisi economica, con la perdurante mancanza di lavoro, che ci ha investito da circa un decennio; il continuo flusso migratorio che sembra non venire meno.
Da qui l’insicurezza sociale diffusa e, in particolare, la preoccupazione di perdere la nostra identità personale e collettiva.
Desidero offrire, senza entrare su specifici e necessari approfondimenti, la ‘chiave di lettura’ riguardo alla nostra ‘identità’ e alle nostre ‘radici’.
In un tempo in cui si parla di ‘società liquida’ e di una ‘cultura senza radici’, l’identità personale e collettiva va pensata non come una realtà fissa nel tempo, ma piuttosto come una ‘identità’ che si arricchisce strada facendo: un’identità viva non è mai compiuta; è come un cantiere aperto e permanentemente in allestimento.
Dal punto di vista cristiano l’identità di un popolo racchiude e fa tesoro da una parte degli elementi purificati della propria storia passata e dall’altra si arricchisce continuamente elaborando le novità dello Spirito che “soffia dove vuole” (Gv 3, 8).
La Chiesa deve essere sempre pronta a discernere le novità dello Spirito, in un confronto costante con la Parola del suo Signore – Gesù Cristo Vangelo di Dio – in un atteggiamento di profonda e reale conversione personale e comunitaria.
A mo’ di sintesi, desidero proporre alcune metafore che possono aiutarci a riconoscere e definire l’identità di un popolo. La metafora del “parto”, già sopra citata: dal travaglio sofferto nasce la vita! La metafora della “strada”: camminando si apre cammino! La metafora del “fiume”: un fiume che scorre è sempre sé stesso, ma l’acqua è sempre diversa, sempre nuova.
Metafore illuminanti e lontane dalla concezione di una identità personale e collettiva assimilabile piuttosto a un “blocco di marmo”, inerte, statico e inscalfibile.
“Dove va la nostra Chiesa di Lucca?”
Una riflessione articolata, come risposta a questa domanda, è offerta nella ‘Lettera’ indirizzata ai cristiani della Chiesa di Lucca che, a conclusione di questa Divina Liturgia, consegnerò personalmente ai presenti, in primis alle Autorità e Rappresentanti delle Istituzioni.
La ‘Lettera’ prende l’avvio dal testo del nostro Evangelista Marco – la guarigione del sordomuto (Mc. 7, 35-32), che ha ispirato il cammino della nostra Chiesa in questi ultimi anni – riferendomi in particolare allo stupore manifestato dai testimoni del miracolo, che dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti” (Mc 7,37).
Questa è una metafora capitale, che ci riguarda intimamente, perché a tutti noi cristiani è stato aperto l’orecchio per ascoltare e accogliere il Vangelo, e a tutti noi è stata liberata la parola per professare la fede e per dare testimonianza a Colui in cui abbiamo riposto la speranza.
Quest’anno, dunque, invito a fermare l’attenzione della Diocesi sulla situazione delle nostre comunità parrocchiali al fine di renderle più autentiche e belle, e affinché la vita delle persone che le compongono divenga tale da destare quella meraviglia di cui parla la pagina evangelica.
Al cuore della “Lettera” c’è il sogno di papa Francesco per la Chiesa intera, che è anche il mio per la nostra Chiesa di Lucca: “Una Chiesa missionaria”. Una Chiesa che mette al centro le persone e non le strutture e l’organizzazione, in quanto sono le persone le pietre vive della comunità.
Una comunità missionaria guarda tutti con simpatia, evita di giudicare, di tutti desidera il bene e la felicità, aiutando ciascuno a crescere. La prima forma di missione è annunciare l’amore gratuito del Cristo, comunicare con gesti e parole il suo amore che accoglie e salva senza condizioni né giudizi.
L’ identità missionaria si esprime a livello personale, con uno stile di vita sobrio, mite, capace di accogliere lo straniero e il povero, secondo i valori evangelici che spesso appaiono alternativi al sentire comune; a livello comunitario, con un’attenzione al territorio e con una condivisione attiva delle situazioni più sensibili, nelle quali la comunità è chiamata a compromettersi.
L’espressione “andare alle periferie”, così tipica di papa Francesco, ci ricorda che non ci sono situazioni o luoghi estranei alla missione della comunità cristiana, impegnata a manifestare concretamente la misericordia di Dio, che riconosce pari dignità ad ogni essere umano, di qualsiasi cultura, etnia o religione.
Dovremmo essere come il rabdomante che “sente” le correnti d’acqua sotto la crosta del terreno; dovremmo somigliare al gufo che vede anche nella notte.
Mi chiedo dunque, come comunità civile ed ecclesiale: sappiamo riconoscere accanto ai segni di morte del nostro tempo (i femminicidi, la tragedia infinita degli immigrati, il genocidio dei cristiani nel mondo, la terza guerra mondiale “a pezzetti”, l’aumento della corruzione, della fame e dell’ingiustizia, la latitanza delle Istituzioni…), anche i segni di speranza (accoglienza dei profughi, attenzione ai diversamente abili, gioia della maternità, salvaguardia del creato…)?
Se la risposta è positiva, la Festa di San Paolino è una sosta annuale che ci rinfranca come comunità civile ed ecclesiale e ci rafforza nell’unità come popolo che ha un dono peculiare: abitare questa meravigliosa Città e vivere questo mirabile territorio che è la lucchesia.

*Monsignor Italo Castellani
Arcivescovo di Lucca