
Seduta congiunta del consiglio comunale e consiglio provinciale di Lucca oggi (26 gennaio) a Palazzo Santini, per celebrare il Giorno della Memoria – istituito nell’anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz. Nel luogo della democrazia cittadina erano presenti, oltre ai consiglieri, anche la dottoressa Carmela Crea in rappresentanza del prefetto, il professor Luciano Luciani dell’istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea e Paolo Molco, membro della comunità ebraica.
Ad aprire la seduta, le parole del presidente del consiglio comunale di Lucca, Francesco Battistini: “Credo che il valore del fare memoria vada oltre una data. È significativo che oggi ci troviamo in questa assise, che vuole rappresentare tutta la città, con questa chiara unità d’intenti. Voglio ricordare – continua Battistini – l’intervento alto e profondo del presidente Mattarella nel richiamarci al dovere della memoria. Un testo che dovrebbe essere proposto in ogni scuola. È necessario essere consapevoli dell’orrore per impedirne il ritorno: ancora oggi, nel mondo, si consumano barbarie indicibili e la memoria è l’unico antidoto che abbiamo. Dobbiamo preservare coscienza e conoscenza e tramandarle insieme alle nuove generazioni. Il poeta Joice Lussu ricordava le scarpe dei bambini morti a Buchenwald, con le suole non consumate: teniamo con noi queste immagini per non essere condannati a riviverle”. Lungo e appassionato l’intervento del primo cittadino di Lucca, Alessandro Tambellini, che ha esordito ricordando come la sacralità della persona, nella sua individualità e dignità, fosse al centro sia delle radici cristiane, sia del pensiero razionale illuministico. “Valori che sono stati poi codificati nelle leggi e nella nostra Costituzione – ha ricordato Tambellini – dopo una fase di grande tribolazione della storia europea che si apre con la crisi dello stato liberale all’indomani della Prima Guerra Mondiale. In Italia nel 1922 si affermò il fascismo e Lucca fu testimone di questo momento: Arturo Paoli ricorda una violenza di cui fu testimone proprio qua, in piazza San Michele, e fu quello il momento in cui sentì nascere la sua vocazione”. Il sindaco di Lucca ha poi ripercorso le tappe significative che hanno portato il fascismo a divenire dittatura e all’emanazione, nel 1938, delle leggi razziali: “Gli italiani sono un popolo meticcio, non esiste una ‘razza genetica italica’, perché da sempre ci siamo contaminati con altri popoli, da nord a sud. Non solo: anche dal punto di vista culturale – prosegue Tambellini – l’Italia è un insieme di lingue e tradizioni diverse. Ma c’era bisogno, allora, di costruire il mito della nazione insignita del compito di ripetere i fasti dell’impero romano: è su quel sentire che si è costruito il bisogno di andare a fare guerra ad altri. Dobbiamo stare attenti a non ricadere in queste trappole ideologiche. Quello che davvero è alla base del nostro vivere insieme, oggi, è l’antifascismo. E va coltivato, nella fatica del confronto quotidiano che tiene viva la democrazia”. Il presidente della Provincia di Lucca, Luca Menesini, ha voluto sottolineare come la memoria sia, prima di tutto, un esercizio quotidiano: “È un lavoro che si origina nella comunità, nei suoi strati più profondi, nel racconto in famiglia, nella coscienza trasmessa sui banchi di ogni scuola, nel capillare impegno delle associazioni del territorio. Questi sono i nostri valori più forti e non lasciamo che rimangano chiusi in una stanza o confinati a un solo giorno: non è un caso, infatti – ha spiegato Menesini – che le iniziative della Memoria abbraccino più giorni e includano tutto il territorio. Sempre più enti sono sensibili al tema e propongono iniziative perché tutti i cittadini imparino a sentirsi testimoni di un ‘mai più’ da trasmettere soprattutto in tempi di pace. Il sindaco ha bene evidenziato le cause culturali che portarono all’affermazione dei nazionalismi, io voglio ricordare anche le cause economiche: c’erano le aspettative di un popolo che si sentiva tradito da un sistema di governo incapace di dare risposte. Dobbiamo vigilare sempre, e attualizzare, mantenendo alta l’attenzione verso quanto accade nel mondo”. “Ritengo che oggi, a distanza di oltre settant’anni anni, per un giovane o giovanissimo abitante del nuovo secolo e del nuovo millennio, sia necessaria una buona dose di fantasia, una vivace curiosità intellettuale e una decisa volontà di immedesimazione solo per iniziare a capire cosa accadde veramente agli ebrei d’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale”, ha esordito lo storico Luciano Luciani. “Certo, i documenti, le memorie, le testimonianze, i film, che sempre più numerosi, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, hanno in vario modo contribuito a illuminare quell’orrore, non riescono, però, ancora a rispondere a tutte le domande che la vicenda della Shoah ci pone. Come mai furono così pochi a rendersi conto della catastrofe incombente? Perché non furono più numerosi coloro che cercarono di fuggire in tempo? Perché non ci fu una maggiore resistenza alle persecuzioni? E interpelliamoci ancora: come possiamo interpretare il silenzio degli intellettuali antifascisti di fronte ad Auschwitz? Eppure era dal 1933 che una pesante minaccia incombeva sugli ebrei. L’emigrazione di 400 mila ebrei dall’ Europa centrale tra l’ascesa al potere di Hitler e lo scoppio della seconda guerra mondiale non era un segnale manifesto che si andava preparando qualcosa di orrendo nella pancia del continente? Come mai nessuno se ne accorse? Perché chi se ne rese conto non diede l’allarme? Non è forse questo il compito degli intellettuali? E poi, anche negli anni del dopoguerra, perché la ‘soluzione finale’ sembrò solo una pagina tragica fra le tante di un conflitto che aveva devastato il pianeta e perché, per molto, troppo tempo, occupò solo una posizione marginale nel dibattito storico-politico? Questi, in estrema sintesi, i nodi di questioni complesse problematiche con cui si trova spesso a fare i conti, per esempio, un docente che voglia trasmettere ai suoi studenti, in maniera non banale e non retorica, il ricordo di quel bruciante segmento di secolo breve. Walter Laquer, storico, uno tra i massimi conoscitori dell’Olocausto e attento studioso della violenza politica del Novecento, ha scritto che ‘i documenti e quindi i libri di storia non riescono a raccontare tutto: non hanno sudore, non muoiono di fame e di freddo, non hanno paura’. Quindi, come possiamo, noi, oggi, capire e far capire alle giovani menti, ai giovani cuori che vivono una contemporaneità liquida, volatile, la condizione di donne e uomini che vivevano e morivano in condizioni senza precedenti nella storia umana? Forse potremmo cercare di favorire nei ragazzi di oggi una più intensa partecipazione ai sentimenti e alla visione del mondo dei ragazzi di allora; assecondando un processo, attraverso cui i nostri giovani e giovanissimi interlocutori siano messi nelle condizioni migliori per trasferirsi, idealmente, nelle vicende e nella situazione psicologica ed emotiva dei coetanei di 75 anni fa. Insomma, stabilire un’empatia, che si realizza più facilmente se la nostra narrazione lascia sullo sfondo le grandi battaglie e i generali, le vittorie e le sconfitte, le strategie e i trattati, per concentrarsi sulle storie del quotidiano: per esempio delle bambine e dei bambini, delle ragazze e dei ragazzi, loro coetanei travolti all’improvviso, nelle loro vite consuete, ordinarie, normali da una tragedia assoluta, incomprensibile e ingovernabile. Vorrà dire qualcosa – chiede Luciani – se nei primi trent’anni da quell’orrore, intere generazioni di giovani e meno giovani si sono educati ai valori della libertà, della democrazia, della tolleranza, della compassione, sulle pagine del diario di un’adolescente di 13 anni che si chiamava Anna Frank”.