Coronavirus, il dottor Tomasi: “I nostri comportamenti sono il miglior anticorpo”

L’ex direttore dell’igiene pubblica dell’Asl: “I pregiudizi non sconfiggeranno l’epidemia: ecco cosa si può fare”
Ristoranti cinesi vuoti, a ruba mascherine antivirus, intimidazioni verbali a turisti e off limits di bar “a chi viene dalla Cina”. È successo a Firenze e Roma, il 30 e 31 gennaio. Due casi che tuttavia non sembrano essere isolati e che si sommano ad altri episodi di discriminazione. Provocata da un virus molto pericoloso: l’ignoranza, la diffidenza e il pregiudizio. Verso cosa? i cinesi, il cibo orientale, i made in China dei grandi magazzini. Perché molte domande, ancora non hanno una risposta chiara.
“Bisogna frenare l’’infodemia’: il dilagare di informazioni false e ambigue – dice Alberto Tomasi, ex direttore dell’area igiene e sanità pubblica dell’Asl Toscana Nord Ovest, nonché presidente della Società italiana di medicina dei viaggi e delle migrazioni -. L’ha detto l’Istituto superiore di sanità: ‘mangiare cinese non è pericoloso. Il virus non si trasmette per via alimentare’; nonché il ministro della salute Speranza: ‘il rischio non esiste. Si può mangiare cinese’. Questa fobia non ha senso, insieme a quella degli oggetti made in China. Le mascherine? Utili, fino a un certo punto”.
In pensione dal 13 ottobre scorso, prima di dirigere l’area igiene e sanità pubblica dell’Asl Toscana Nord Ovest il dottor Tomasi ha ricoperto numerosi, rilevanti incarichi. Di origine trentina, si laurea all’università Cattolica del Sacro Cuore nel 1978 iniziando a lavorare come medico igienista. Un settore, la medicina preventiva, che non abbandonerà più: dall’’88 al ’91 è responsabile dell’igiene pubblica della Asl di Pontedera, del servizio di igiene pubblica della provincia di Trento fino al ’94. Per poi approdare nella nostra città, come direttore sanitario dell’allora Asl 2 e direttore del Dipartimento della Prevenzione.
“La sanità pubblica si occupa di prevenzione. E prevenire è meglio che curare – afferma -. Ma – aggiunge con rammarico – questo concetto è ormai un luogo comune: tutti lo dicono ma a praticarlo sono in pochi. Come nulla, si prendono medicinali su medicinali, mentre verso i vaccini cresce la diffidenza – continua -. Ho molto combattuto a Lucca contro questo fenomeno, volevo aumentare la copertura vaccinale. Ma con scarsi risultati. Se un tempo per l’influenza si vaccinavano oltre il 70% degli over 65, oggi siamo scesi al 50%- racconta. Le conseguenze? Mancano posti letto negli ospedali. Sempre più persone soprattutto anziani con influenza, polmonite e altre malattie, facilmente evitabili se tutti si vaccinassero. Campo di Marte è intasato. E i cronici finiscono al San Luca, un ospedale per acuti”.
“Se sia sufficiente contro lo scetticismo verso i vaccini? Ovviamente no – afferma Tomasi -: basti pensare la recente correlazione fra l’antimeningite e il trivalente, con l’autismo. Smentita dagli scienziati. Solo la paura di un’epidemia mondiale, di un virus ancora sconosciuto, potrebbe invertire questa tendenza. Ed è proprio ciò che sta accadendo”.
“Non c’è notiziario che non ne parli: da un mese il coronavirus è la notizia d’apertura, su qualsiasi canale. morti, sospetti, contaminazione, quarantena, isolamento: non passa giorno senza sentire queste parole. Compresa quella ‘vaccino’: in tutto il mondo, l’attenzione è infatti rivolta alla scienza. Che rispetto alla realizzazione della cura, rimane cauta: “Attenzione, un vaccino non si scopre da un giorno all’altro. Servono anni di studio e test in laboratorio: è il risultato di un iter scrupoloso, difficile e accurato”.
“Nessuna eccezione per il caso attuale: si dice a battuta: ‘i cinesi hanno fatto in pochi giorni un ospedale, noi nemmeno in anni’. Potrebbe essere lo stesso per il vaccino contro il coronavirus, pensa la gente. Ma la verità – osserva Tomasi – è un’altra. All’inizio dalla Cina si diceva: ‘in quaranta giorni avremo il farmaco’. Che dire, sarebbe bello. Ma seguendo le procedure normali, occorrono mediamente degli anni. E dipende dai fondi, più soldi ci sono più si procede velocemente. Ma il percorso di preparazione di queste cure è inevitabilmente lungo, perché per prima cosa ci si deve assicurare che il risultato non faccia male. Poi, che produca gli anticorpi. Infine, che questi abbiano una durata – spiega -. Possiamo anche realizzarne uno in tempi brevi, ma a che mi serve se dopo 15 giorni non ci sono più anticorpi? Quale protezione può dare? Che funzione avrebbe?”, avverte il medico. Non si tratta perciò di essere scettici, ma realistici e sinceri: il contrario di alcune notizie – sostiene il medico -, che sull’onda della paura e per frenare l’allarmismo, hanno passato messaggi errati. Perché è difficile che un vaccino sia pronto in quaranta giorni. Oppure, in otto mesi.
Come affrontare il coronavirus, quindi? Con realismo e obiettività, senza essere catastrofici né insinuare false ed errate speranze. Tuttavia, ciò non toglie che speranze ci siano. Solo qualche giorno fa, il 2 febbraio, la bella notizia: dopo la Cina, l’Australia e la Francia, anche nell’ospedale Spallanzani di Roma è stato isolato il 2019-nCov. Un motivo di orgoglio per il nostro paese, adesso fra i protagonisti della ricerca. Ma perché tanta enfasi sull’evento? Cosa significa esattamente isolare un virus, e perché è importante? “Come spiegare: finché non si ha la figura dell’assassino, è impossibile arrestarlo. Questo significa ‘isolare’: possedere un identikit dell’imputato – spiega l’ex direttore Tomasi -. E non è una passeggiata perché stiamo parlando di organismi molto piccoli. Invisibili al microscopio, a differenza dei germi come meningite e meningococco. Quindi, difficilissimi da individuare e coltivare, se non grazie a capacità tecniche e scientifiche notevoli: che in Italia abbiamo. È vero, non siamo stati né i primi né gli unici-nota-a riuscirci. Ma essere fra i primi in occidente, è importante: soprattutto per un laboratorio del servizio sanitario nazionale. E perché si tratta del primo passo verso la terapia. Che tuttavia, come per tutte le malattie virali, è difficile da trovare, essendo appunto il vaccino”, conclude.
“Anche se non abbiamo il vaccino per il coronavirus, quello contro l’influenza e la polmonite possono aiutare – spiega Tomasi -: perché aumentano le nostre difese immunitarie. Infatti, sappiamo che come tutte le malattie infettive, anche questa è maggiormente pericolosa per chi è già debilitato e fragile. Anziani e fumatori in primis. Fondamentale poi – ribadisce – è il lavaggio delle mani: l’effetto meccanico del movimento, con sapone per almeno 20 secondi. L’amuchina? Certo, fa bene: ma di per sé non serve a molto. Serve l’acqua corrente unita allo sfregamento delle mani. Spesso, sia prima che dopo mangiato, e in vari momenti della giornata. Un accorgimento utile per tutto: influenza, intossicazioni alimentari. Fa cioè parte di uno stile di vita corretto-osserva-. Con questo semplice gesto, uccidiamo il 90% germi. L’amuchina ne uccide solo il 10%”.
“L’attenzione all’igiene personale, quindi, è un valido aiuto. Insieme ai vaccini antinfluenzale e contro la polmonite. Non che quest’ultimo protegga dalle forme virali, ma comunque protegge: perché potenzia il nostro sistema immunitario, rendendolo più vigile e sempre in allerta. Ed è il sistema immunitario che può salvare dal coronavirus. Un nemico che ha infatti la meglio sull’1% contagiati, i più fragili come i malati o gli anziani. E la mascherina, sì, un senso ce l’ha: ma non per non essere infettati, quanto per non infettare gli altri.
“E’ più che altro un segnale – spiega Tomasi -: come la nave che un tempo, se aveva la peste a bordo, innalzava la bandiera gialla. In questo modo, tutti lo sapevano, standosene alla larga. Così l’utensile in questione: dovrebbe servire ad avvertire gli altri, è quello il concetto. Una forma di educazione, attraverso un segnale visivo – spiega l’esperto -. Perché il virus sta nelle cellule vive, quindi nelle gocce di saliva. Ma quando vedo una persona che indossa la mascherina, non la vado certo a baciare, a farmi starnutire in faccia o a cercare un qualche tipo di contatto stretto con lei: l’unico modo per contrarre l’infezione”.
Perciò, la probabilità di infettarsi toccando maniglie o altri oggetti, è quasi inesistente. Su di essi, infatti, il virus non sopravvive: “Faccio un esempio – dice Tomasi -: infettarsi con una siringa. È molto difficile, perché il sangue infetto in poco tempo si disattiva. I virus vivono addosso a persone e animali: nelle cellule vive, quindi. Fuori – sottolinea – non sopravvivono”.
Per lo stesso motivo, non c’è ragione di non frequentare i ristoranti cinesi. L’ha del resto detto il ministro della salute, nonché l’Istituto superiore di sanità: certo, per salvaguardare interessi commerciali e politici, ma è vero. I cibi cinesi non devono far paura: proprio come gli oggetti. “Il 99% di ciò che si compra è cinese. Ma se tocco una pila fatta in Cina, lì il virus non c’è, perché non sta su cellule morte. E la via di trasmissione alimentare, quella proprio no: una vera bufala. Il nostro succo gastrico disattiva i virus-spiega-. Sono organismi certamente molto pericolosi: ma-sottolinea-per nostra fortuna, facilmente disattivabili. Ci vuole un passaggio diretto per contrarlo”. Fuori rischio sono quindi i cibi. Anche quelli dei ristoranti cinesi. E anche quelli provenienti dalla Cina: dato che viaggiano per giorni, congelati. E se un cuoco a sua insaputa, ha contratto il virus? “Di nuovo, non c’è pericolo-rassicura l’esperto-. A meno che non si baci il cuoco. Non confondiamoci con la salmonella: in questo caso, lavarsi le mani dopo essere stati in bagno è fondamentale: pena, la trasmissione della malattia agli alimenti, e al cliente. Ma non è il caso di questi virus, che vivono solo nelle cellule viventi dell’uomo. E negli animali: ma la cottura non salva niente. Inoltre – aggiunge – la cucina cinese è più sana della nostra: il cibo viene spezzettato in piccole parti, creando un grosso vantaggio perché può essere cotto più facilmente. Ci vogliono pochi minuti, se non secondi, per raggiungere la temperatura che distrugge tutti i germi”.