Il vescovo Giulietti: “A Natale fede e speranza siano l’antidoto alla pandemia”

Gli auguri di monsignor Paolo: “Questo virus ci lascia ferite scoperte ma passerà”
“Anche in questo Natale l’atteso ritorno alla normalità appare ancora di là da venire, come un’asticella che continua ad alzarsi, mettendo a dura prova le capacità e la pazienza di chi la dovrebbe saltare”. Sono parole con cui l’arcivescovo di Lucca, Paolo Giulietti, si rivolge ai fedeli. Inevitabile un riferimento alla pandemia, che anche a livello locale, ha visto soprattutto negli ultimi giorni un’impennata di casi.
“L’attesa messianica dell’Avvento è surclassata, negli animi, dall’attesa spasmodica di una liberazione il cui annuncio è da tempo atteso, ma che sembra non venire mai. Verrà – speriamo presto – la fine della pandemia, con tutte le sue limitazioni e le sue paure. È sempre accaduto. Verrà anche, dopo qualche tempo, il termine delle conseguenze sociali, sanitarie e psicologiche di questi lunghi mesi di contagi e paure. Ma anche quando tutto ciò sarà accaduto, rimarrà, nel profondo delle coscienze, la profonda ferita che la pandemia ha inferto alle sicurezze sulle quali si basava la vita personale e collettiva: un mondo forte e progredito si è scoperto all’improvviso fragile, scosso da qualcosa che sembrava relegato al lontano passato. A questo senso di precarietà, in fondo, non c’è rimedio, poiché essa, anche se ce n’eravamo dimenticati, ci appartiene; è retaggio della nostra condizione limitata e mortale, della quale – nonostante gli sforzi e i progressi della scienza e della tecnica – non ci si potrà mai liberare. La pandemia, da questo punto di vista, è stata una dolorosa iniezione di salutare realismo; poiché è solo da una considerazione realistica di ciò che sono l’uomo e il mondo che si può agire e pensare efficacemente. A una condizione, però: che questo non risulti disperante, come una via priva di uscita o un destino senza scampo”.
“Dinanzi a tale eventualità certamente deleteria per ogni forma di impegno – osserva il vescovo – l’evento del Natale pone ‘un segno di consolazione e di sicura speranza’ (Lumen Gentium 68): il Figlio di Dio, infatti, si fa ‘carne’, bambino inerme in braccio a Maria, nella povertà della mangiatoia: accoglie appieno la condizione umana proprio nella sua limitatezza e nella sua mortalità. Con ciò, egli dichiara che la fragilità costitutiva della natura umana non pende come una spada sui desideri di vita, di pienezza e di felicità che abitano il cuore dell’uomo, poiché è possibile fronteggiare con successo ogni male e ogni limite, financo la morte. La povertà e la debolezza di cui il bambino Gesù si riveste a Betlemme – come accadrà per l’estrema condizione del Calvario – sono ‘gloria’; rivelano la sapienza e la forza di Dio, che rendono l’uomo vincitore proprio laddove egli si riterrebbe sconfitto: la paura, la sofferenza e la morte. Omnia vincit amor. L’amore vince tutto. La luce di questa verità, nella notte della disperazione, è liberante: ci regala, nonostante tutto, quella gioia che niente e nessun altro può dare”.