Il Villaggio del fanciullo compie 75 anni, il vescovo Giulietti: “Spesso si è orfani anche con mamma e papà”

9 giugno 2022 | 14:34
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Questa mattina alla Casa del Boia un convegno per celebrare questo compleanno speciale: presenti tanti ‘ex villaggini’

Tante sfide, tante problematiche, ma un cuore che batte ancora con un unico obiettivo: aiutare i ragazzi più sfortunati dando loro la possibilità di crearsi un futuro migliore. Essere una famiglia prima ancora di una comunità.

Un compleanno importante quello celebrato oggi dalVillaggio del Fanciullo, la storica comunità per minori della nostra città e opera della Chiesa lucchese, che questa mattina, per i suoi 75 anni, con un convegno alla Casa del Boia si è interrogata su un tema importante: Chi sono gli orfani di oggi?.

Attualmente il Villaggio accoglie 12 ragazzi dai tredici ai vent’anni. Dieci di loro sono stranieri e non accompagnati, prevalentemente provenienti dall’Albania, cinque di loro invece sono lì perché segnalati dai servizi sociali. In tanti tra poco dovranno sostenere gli esami di terza media, ma anche quelli di maturità.

Presenti al convegno Alessandro Melosi, presidente della Fondazione Villaggio del Fanciullo Onlus, il sindaco Tambellini e Raffaele Domenici, esperto di istituti per l’infanzia abbandonata del Novecento a Lucca ed autore dell’omonimo libro per la Pacini Fazzi Editore. Al convegno anche gli ex ragazzi del Villaggio Francesco Cecchi, Francesco Ristori e Paolo Marchi, attuale presidente dell’associazione Amici del Villaggio, ma anche la garante dell’infanzia e adolescenza del Comune di Lucca, e volontaria del Villaggio, Elena Baroni, e il direttore del Villaggio del Fanciullo don Leonardo Della Nina. Intervenuto anche l’arcivescovi di Lucca, Paolo Giulietti.

Un po’ di storia

Sorto il 27 maggio 1947 per dare una casa e una famiglia agli orfani di guerra, il Villaggio non ha mai cessato, sotto la sapiente guida di don Enzo Tambellini e don don Diomede Caselli, di offrire accoglienza a ragazzi che ne avevano bisogno, sapendosi adattare alle esigenze dei tempi che cambiano. Ha permesso di studiare e formarsi a centinaia di minori provenienti da famiglie con disagio economico negli anni Cinquanta e Sessanta, poi il disagio è diventato più sociale ed educativo, negli anni Settanta e Ottanta quando fondamentale è divenuto il rapporto con i servizi sociali del territorio; poi dagli anni Novanta sono cominciati ad arrivare, accanto ai ragazzi italiani, numerosi ragazzi stranieri e negli anni 2000 sempre più numerosi sono stati i minori stranieri non accompagnati: il Villaggio è così diventato una sorta di “laboratorio interculturale” come ebbe a dire con affetto monsignor Italo Castellani arcivescovo emerito di Lucca in occasioni del 60esimo anniversario.

Il Villaggio del fanciullo è ancora oggi un punto di riferimento importante per la nostra città – ha detto il sindaco Tambellini – Il Comune di Lucca continuerà a collaborare e a garantire il supporto necessario, sperando che i tempi migliorino. Grazie infinite per il lavoro che state facendo, per tutti noi è un grande esempio di vita, di etica e di solidarietà”.

Durante il convegno sono stati ricordati anche gli altri istituti cittadini che, fin dall’Ottocento, hanno aiutato e dato un futuro ai bambini orfani e in difficoltà. Primo tra tutti l’istituto Carlo Del Prete, dove, nelle famose ‘ruote’, venivano abbandonati i bambini nati in famiglie poverissime: qui, grazie all’aiuto della cittadinanza più abbiente, i bambini riuscivano a trovare una nuova famiglia, quasi sempre appartenente alle classi più alte della società.

Poco conosciuto e ricordato – purtroppo – da pochi, tra le grandi istituzioni lucchesi c’era anche il ricovero degli artigianelli, aperto nell’Ottocento e chiuso nei primi anni Novanta. Qui, oltre alla scuola serale frequentata da bambini ma anche da persone più adulte in difficoltà, veniva fatto anche ‘catechismo’ e laboratori per imparare un nuovo mestiere: da qui sono nati i più grandi tipografi di Lucca, ma anche meccanici, sarti e diversi sacerdoti. La scuola forniva tutto: dai libri alla carta e alle penne con cui scrivere. Importantissima anche l’attività sportiva utilizzata come metodo educativo: tanti ragazzi sono arrivati addirittura a giocare tra i professionisti della serie A.

Importantissima anche la colonia agricola di Mutigliano, dove oggi c’è l’istituto agrario. Qui i ragazzi venivano accolti per essere avviati al lavoro nei campi ed era presente anche il più grande pollaio della Lucchesia. La Colonia fu finanziata addirittura dalla Regine Elena.

E, infine, il Villaggio del fanciullo, che prima di diventare tale ne ha passate davvero tante: se fosse esistito Facebook nei primi anni del Novecento, infatti, ne avremmo lette davvero delle belle. Il progetto della sua costruzione sulle mura urbane, infatti, fece molto scalpore ed alzò non poche polemiche. Dopo tante chiacchiere, però, il Ministero dell’epoca diede finalmente l’autorizzazione: sulle mura, sì, ma per il bene dei bambini. Prima divenne un asilo, poi una clinica per i bambini malati: si diceva che il sole preso sul baluardo delle mura, tra gli alberi e l’aria buona, facesse infatti molto bene ai piccoli pazienti. Nel ventennio venne poi utilizzato come sede militare, mentre durante la guerra, con la miseria, venne occupato da diverse famiglie. Solo nel 1946 tornò libero e, un anno dopo, diventò il Villaggio del fanciullo che tutti noi oggi conosciamo.

Ad intervenire anche degli ‘ex villaggini’: “Il Villaggio ha accolto da sempre ragazzi di ogni età e con ogni tipo di problema – ha commentato Paolo Marchi, ora presidente dell’Associazione Amici del Villaggio –Nel tempo sono cambiati i ragazzi, le esigenze e anche la società, ma lo spirito è sempre stato lo stesso: accoglienza e condivisione”.

Sono arrivato al Villaggio quando ero solo un bambino – ha aggiunto Francesco Ristori – sono nato in una famiglia che viveva nella miseria ed ero l’ultimo di cinque figli. Prima di finire lì i miei genitori ci mandarono in collegio: un posto orribile dove prendevamo botte dalla mattina alla sera. Il primo giorno che io e miei fratelli arrivammo al Villaggio e ci spiegarono cosa avremmo fatto durante le giornate, restammo stupiti: c’era tempo per studiare e fare i compiti, ma anche per giocare, stare insieme. Non scorderò mai cosa mi disse mio fratello la prima sera, quando andammo a dormire: “Ma le botte quando ce le danno?”.

Eravamo solo dei ragazzini e facevamo tante marrachelle, ma al contrario del collegio, al Villaggio avevano metodi punitivi più umani: ogni volta che combinavamo qualcosa ci venivano dati dei punti. Solo chi non ne aveva poteva guardare la tv o andare la domenica allo stadio a vedere la partita della Lucchese. Ci tenevano tanto, quindi cercavamo di comportarci bene”.

I parroci per noi sono stati tutto: genitori, ma anche pedagoghi, educatori, talvolta anche infermieri e medici. La città è stata sempre molto solidale con noi, per questo ogni volta che sento dire che i lucchesi sono tirchi ed hanno il braccino corto mi viene da sorridere: al Villaggio ci sono stato per undici anni, in tutto questo tempo ho sempre avuto colazioni, pranzi e cene offerte dalla gente”.

Al Villaggio ho trascorso un’adolescenza importante – ha aggiunto Francesco Cecchi – Qui ho imparato tanto, forse più di quanto potessi imparare in famiglia. Quando vivi in collettività è diverso, ci sono i più deboli, i più arroganti, e sta a te cavartela. I preti sono stati fantastici, ci hanno permesso di crearci un futuro. Abbiamo fatto anche parecchio sport e teatro, che ancora oggi cerchiamo di portare avanti con i ragazzi. Abbiamo capito di essere bravi, quindi continueremo”.

A prendere parola anche una pietra miliare del Villaggio, Elena Baroni, volontaria da ben trent’anni e oggi anche insegnante e garante dell’infanzia e dell’adolescenza del Comune di Lucca: “I nuovi orfani sono ragazzi privi di punti di riferimento, e purtroppo gli ultimi due anni ci hanno insegnato bene quanto sia difficile vivere isolati. Un tempo anche se non si avevano i genitori c’era comunque una comunità unita intorno ai ragazzi, oggi non più”.

Nel Villaggio c’è una bella equipe: educatori, psicologi e circa una quarantina di volontari. Gestire tutto non è semplice: oltre a dover ascoltare tante teste, nel Villaggio vivono ragazzi in piena adolescenza e provenienti da un vissuto difficile. Diverse culture, diverse religioni, tutto questo spesso può essere una ricchezza ma anche un motivo di scontro. In tutto questo però cerchiamo sempre di essere un semino per questi ragazzi, un semino che porteranno nel loro cuore e nelle loro vite per sempre. Puntiamo molto sulla scuola e sulla formazione di ognuno di loro: non basta avere buoni voti, è importante anche la socialità, il modo in cui stanno a scuola. I volontari per noi sono molto importanti – ha concluso – adesso abbiamo anche delle ragazze del servizio civile e spero che possano restare con noi anche dopo questa esperienza. Il Villaggio è cambiato molto e cambierà ancora, nel tempo si è adattato bene ai tempi ma non deve perdere di vista le sue radici, lo spirito che ci hanno lasciato i due grandi parroci che hanno dato vita a tutto questo”.

In conclusione, l’arcivescovo Giulietti ha preso la palla al balzo per fare alcune provocazioni.

Non voglio fare delle conclusionima delle provocazioni, perché queste non chiudono ma aprono a riflessioni. Nel nostro paese il terzo settore si sta evolvendo: le realtà di volontariato stanno virando sempre più verso un modello di impresa sociale. E impresa, a mio parere, dal punto di vista concettuale è il contrario del volontariato. Questo viraggio, non privo di rischi, dimostra che tutta una serie di opere nate come espressione libera della comunità diventano imprese. La comunità quindi finirà per essere estromessa, al massimo svolgerà un ruolo sussidiario. Se c’è bene, se non c’è è uguale. Non ho niente contro le imprese sociali, ma bisogna fare attenzione, soprattutto ai valori che devono essere trasmessi. La professionalità non sempre sposa la condivisione di certi valori. Dobbiamo fare delle scelte di impostazione di fondo”.

“Oggi gestire il Villaggio è più complesso di un tempo: innanzitutto la giovinezza si è allungata. Un tempo la prima busta paga si aveva a 19 anni, oggi a 19 anni chi è che lavora? I ragazzi di oggi a 19 anni non sono nemmeno più autonomi: la giovinezza dura fino ai 30-35 anni ed è molto più complicata, e bisogna prenderne atto. Una volta si era orfani quando non si avevano i genitori, oggi lo si è anche se abbiamo mamma e babbo: in quanti mandano i figli a ripetizione perché non hanno voglia né tempo di stare dietro ai ragazzi che devono fare i compiti? Non siamo in grado di seguirli, non vogliamo conflitti con loro. Si mandano i figli da un’insegnante perché non si è in grado di fare i genitori. I compiti dentro casa non si fanno più. L’orfanità di oggi è anche questa. I genitori non danno riferimenti sufficienti per affrontare la vita, di conseguenza i giovani non crescono. La questione educativa è un’emergenza seria – ha concluso Giulietti – Questo scenario è provocante per una istituzione che dopo 75 anni si domanda come rendere attuale il carisma dei primi fondatori. Anche il rapporto con la comunità e la chiesa è cambiato, non è più strutturale ma accessorio. Spero che i parroci e i cittadini ritrovino la voglia di interagire con questa bella realtà che continua ad essere un faro per la città”.