Educare alla morte: il rito dell’addio

31 agosto 2018 | 15:30
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Educare alla morte: il rito dell’addio

Fare spazio per raccogliere l’assenza nella sua dimensione di ricordo. Tra le tappe rituali del lutto c’è quello dell’addio. Se non è stato possibile salutare il defunto o partecipare al funerale, mancherà una parte importante. Per questo l’addio necessita di un rito. Un dolore grande, illimitato, ha bisogno di un contesto corrispondente, senza limiti di spazio e di tempo per essere espresso. La parola rituale, nella sua origine in sanscrito significa: verità, legge cosmica. Il rituale rende visibili e vivibili i nostri sentimenti ed emozioni e rivela le nostre verità profonde.

Questa connessione con qualcosa di più grande di noi, con questa verità interiore, dona al rituale una grande bellezza, una bellezza che consola e fa sentire la persona preziosa e unica. Dire addio permette di procedere nella propria vita privata passando dalla presenza fisica – ora assenza – alla presenza del ricordo. È un atto intimo veicolato e accompagnato dalla condivisione e dal rito. Non sempre i momenti coincidono, spesso il rito è preparatore ed esplicativo dei passaggi che dovremo affrontare. Anche se i modi di definire e analizzare la morte variano da cultura a cultura, la credenza della morte come passaggio – ossia l’accesso a una condizione diversa che assicura una continuità di esistenza in un’altra vita – è assai diffusa e molto remota. In generale la morte di una persona cara è sempre vissuta con dolore, turbamento, nostalgia, senso di privazione del rapporto con lo scomparso, innescando il lutto. In questo senso prevale l’interpretazione dell’evento come fatto negativo, un danno sia personale sia sociale che colpisce i superstiti, oltre che ovviamente il defunto. Attraverso comportamenti strutturati e codificati, l’angoscia di morte trova allora un contenitore nel rito e può, in buona misura, essere superata. La morte, dunque, rompe l’equilibrio dinamico della vita collettiva e questo vuoto sociale dipende dall’intensità della posizione che il defunto aveva nella vita della società e dei suoi gruppi: la morte distrugge non solo la persona fisica ma anche la persona sociale e quindi il rapporto dell’individuo con il suo gruppo. Ecco allora che entrano in funzione i riti delle esequie, i necrologi, l’ultimo saluto al cadavere, le veglie funebri, le messe di anniversario, il cordoglio e le espressioni di condoglianze da parte di amici e conoscenti, tutti rituali che non solo aiutano nell’elaborazione del lutto, ma trasformano lo stato negativo di defunto in quello positivo di morto. I riti aiutano a dire addio, ad esplicitare ed elaborare le emozioni e a prospettarsi la vita futura in assenza fisica della persona scomparsa. Nel gesto di ricordare e salutare un uomo morto c’è il rispetto per l’umano, per la vita vissuta, c’è la comprensione per le vite sfortunate o cattive e l’ammirazione per quelle buone, c’è la pietà per la mortalità dell’uomo, c’è il sentimento della nostra fragilità, c’è la consapevolezza del mistero ed il bisogno di proseguire con una nuova assenza che è presenza.

dottoressa Valentina Ciuffi
pedagogista clinica ed educatrice professionale
valentina.ciuffi@libero.it