


Come il cibo apre a un viaggio del palato nel tempo e nello spazio
Da quando sono nato mangio e bevo. Da quando ho l’uso della ragione viaggio. Da quando i miei neuroni sono amici dei miei ventricoli ricordo.
Ecco cosa vi propongo: viaggiare con me fra cibi, liquidi e atmosfere, in posti veri e luoghi della memoria, ché viaggiare non è solo spostarsi nello spazio, ma anche nel tempo. E non solo scoprire ma anche ri-scoprire. Le stanze della memoria viaggiano anche loro e si accendono se cercate, e con la luce arrivano anche suoni profumi e sapori.
In ogni momento sentitevi liberi di staccarvi dalle righe scritte, acchiappare l’idea e inseguire le vostre stanze, gustarle e poi se mai tornare, è così che si viaggia insieme.
Allacciate le cinture, le bretelle, quello che volete… Buon viaggio!
Io sono sempre polemico con il fast food, l’idea di qualcosa uguale sempre e dappertutto mi mette a disagio, cozza contro il mio senso di libertà, anzi contro la libertà delle cose ad essere diverse una dall’altra, come noi, ma chissà… in effetti ci sono un sacco di cibi uguali in tutto il mondo, da Rovaniemi a Mumbai… forse hanno la particolarità di non essere ben organizzati.
Ad esempio, ora che ci penso… La prima volta che le incontrai di nuovo ero con la mia amica, ragazza e futura moglie, giravamo Rodi su un motorino a ruote grandi e eravamo finiti a sud, in un villaggio fatto da qualche casa dopo Lindos. Il posto non era nel villaggio, era sulla spiaggia, all’ombra di un paio di alberi grossissimi che coprivano tavoli e cucina di un ristorantino familiare. Così vicino al nostro hotel (dormivamo appunto sulla spiaggia con i sacchi a pelo) era comodissimo per le colazioni con miele e yogurt fresco e succo di arancio da latta (non lattina…) e il caffè con il fondo servito sempre insieme con il bicchierino mezza taglia di acqua per pulirsi la bocca.
Poi capitavamo alle ore di pranzo e cena di vacanza, tarde e sballate. Al modo greco non c’era menu, Ghiorgòs ti diceva di andare in cucina e vedere cosa aveva cucinato sua moglie e tu sceglievi (così si dribblava egregiamente la traduzione). In Grecia non arrivavano porzioni singole, ma solo vassoi per tutto il tavolo, da condividere, alla faccia dell’egoismo alimentare e viva il vero convivio!
Loro arrivarono nella versione con sugo, a metà strada fra una pommarola carica e un ragù scarico, e il loro interno era indiscutibilmente quello che riempiva la scodella in cucina, quadro puntinista di vario impasto crudo e rifinito con la forchetta. Avevo nel tempo imparato a ricomporre i miei assaggi furbi e volanti con colpi di pennello-forchetta che mi sembravano perfetti ma venivano regolarmente scoperti…
Tanti anni dopo le ritrovai su un piatto leggero di plastica, sapete quelli che si vedevano nei negozi di campeggio, ecco, sono molto usati nei ristoranti di strada in India, o almeno nelle vicinanze di Aurangabad, Maharastra
Beh, però in quel piatto opaco su una tavola opaca e dentro un posto opaco in semi costruzione o forse in semi distruzione (in India è difficile riconoscere in che punto e in che direzione sei nella scala del tempo) c’erano loro, lisce esternamente e lisce anche se composite internamente, saporite ma non troppo, vicine come si deve a limone e cipolle. Pure nell’ipnosi del curry onnipresente, pure nelle mani magre scure e lisce dei camerieri era impossibile non riconoscere la noce moscata.
In quell’ambiente onirico, come molti ambienti indiani, erano come una sorpresa e una carezza.
Saltarono fuori ancora dopo un antipasto scontato e un primo così così, a Barga, vicino Lucca, posto meno esotico ma dipende (ad esempio Barga è un posto molto esotico per gli abitanti di Aurangabad…). Illuminarono la cena come una cometa, riordinai 2 volte, sempre con pomodori di contorno, e mi sembrò come d’incanto di essere 20 anni prima e 20 chili prima, al tavolo con il marmo, sulla ghiaia, davanti al garage, in una di quelle estati inebrianti dell’infanzia.
Potevo addirittura sentire le voci e vedere il sole sugli alberi del mio giardino al tramonto. Qualcuno mi chiedeva di aiutare e non stare sempre a giocare.
In un ping pong di fusi orari le ritrovai a distanza di sei estati all’improvviso ad una colazione in un hotel di Jakarta, di quelli con la foto dell’impiegato del mese, della torta del mese eccetera, attirato dal nome buffo (bakso) ma senza averle riconosciute, anche se occhieggiavano con il sale che rimaneva delicatamente attaccato come per attrazione e le forme unicamente in due varianti, la tonda , che rimaneva più bionda e la oblunga che si oscurava più facilmente. Mangiarle a colazione non mi era mai capitato….
Cosa? Ma le polpette della mia mamma!!!
Una sinfonia fatta di carni varie cucinate con olio aglio e rosmarino dentro quella pentola brutta e solida, con dentro quei segni di mille pulizie che la facevano sembrare la pelle di un vecchio contadino; passate a mano al tritacarne fino a non riconoscere maiale da pollo da manzo da lesso; amalgamate con parmigiano, pepe, sale, uovo e noce moscata (grattata con quella mini grattugina che mi sembrava un attrezzo da orefice) e finalmente composte nella scodella bianca e aggiustate ammodo con la forchetta. Da lì (a parte miei assaggi furbi e volanti di cui prima) appallottolate e riformate a mano oblunghe o tonde, passate nella farina e deposte nell’olio giallo ricco e sfrigolante in quell’altra padella, quella larga e macchiolata deputata ai fritti,dalla quale uscivano perfettamente lisce e profumate come da un bagno purificatore. A onor di nota ricordo una volta di più la padella che soprintendeva alle altre prelibatezze della serie: patate fritte (quelle vere), zucchini e pomodori ripieni.
Unica variante permessa alle polpette fritte del mito: affogate nella pommarola per il sugo dei nipotini. In questo caso la superficie mutava, leggermente rugosa per aggrapparsi voluttuosamente al sughetto.
Certe volte si lamentava che non le erano venute bene o che c’era troppo di questo o di quello: non era vero: il miracolo avveniva ogni volta perfettamente uguale.
Senza ricetta: senza di lei mai più.
Beh poco male. Cinico?
No: come vedete… come ultimo gesto di amore sciamanico la mia mamma me le fa ritrovare uguali qua e là, chissà dove la prossima volta, ma tanto io prima o poi le ritrovo… grande McMother!
E così tante mamme e tante nonne sconosciute hanno sparso per il mondo il loro linguaggio d’amore, fatto di cibi cucinati con amore, per figli e nipoti sconosciuti che sapranno riconoscere la noce moscata.
Come potremo mai ringraziarle?
Semplice: con la curiosità e la memoria.
Funa il viaggiatore romantico