Tappeti Volanti e Papiri

C’è un ponte lunghissimo che collega l’Orto Botanico di Lucca agli antichi egizi; è fatto di papiro e anche se sembra fragile resiste da oltre cinquemila anni.
Benvenuti alla nuova puntata della rubricaTappeti Volanti; qui si mescolano in vario modo immagini, parole e idee. Le prime sono mie (di solito), le seconde pure (quasi sempre), le idee invece sono il patrimonio comune più importante che abbiamo; facciamole girare, ne abbiamo bisogno.
Mi chiamo Filippo Brancoli Pantera, sono un fotografo e un giornalista, mi sono laureato in Beni Culturali all’Università di Firenze e diplomato in Fotografia Documentaria presso l’International Center of Photography di New York. Ma non occorre andar lontani per trovare qualcosa di bello, basta solo guardarsi attorno e provare a raccontarlo.

Papiro (Cyperus papyrus) Orto Botanico di Lucca
“Certi amori non finiscono_Fanno dei giri immensi_E poi ritornano”, così come tornano spesso alla mente questi versi di “Amici mai”. Era il 1991, io andavo alle medie e dalla radio della macchina del mio babbo, mentre mi accompagnava a scuola, spesso usciva la voce di Antonello Venditti che rifletteva sulla modalità circolare di alcuni rapporti: come se pochi di essi avessero la particolare abilità di passare ad abbracciarci ripetutamente durante il corso della vita e darci così l’illusione di un accompagnamento alternato ma costante.
Forse una cosa del genere potremmo applicarla anche al rapporto tra la nostra specie e alcuni esemplari del mondo vegetale. Con la pianta di cui parleremo oggi abbiamo iniziato un rapporto più di 5 mila anni fa (uno dei rapporti più fecondi che abbiamo mai intrattenuto), e quando me la sono ritrovata di fronte vi confesso che mi sono emozionato moltissimo; ho avuto la sensazione di ritrovare una parte di me che non ricordavo nemmeno di aver perso. Eppure era lì che mi aspettava, a pochi passi da casa, bastava perlustrare l’Orto Botanico della mia città.
Dopo esser stato inizialmente rapito dal laghetto delle ninfee adesso mi sento più tranquillo, ho immagazzinato talmente tanta bellezza al primo giro che adesso passeggio soddisfatto tra alberi e piante; fino a che mi aggiro tra i primi, più o meno – a volte, non sempre – riesco a indovinare il genere, anche se ho comunque bisogno di consultare il cartellino posto vicino al tronco per avere conferma.
Ma quando si tratta di piante in vaso allora il discorso cambia. Belle lo sono tutte, ma il nome della maggior parte di esse non provoca in me alcuna reazione; è una conferma purtroppo, il regno vegetale è enorme e io ne so veramente poco. Poi però metto a fuoco una parola, una sola, e subito questa comincia a rimbombare dentro di me prendendo con forza tutta la mia attenzione.

Papiro (Cyperus papyrus)
Papiro … Ah l’Egitto! Ecco qualcosa che conosco. Conosco … mi ricordo, vagamente, dai tempi della scuola, quella elementare. Qualche anno fa però mi sono trovato a pensare molto intensamente a quella terra così carica di storia; avevo preso una decisione che apparentemente non c’entrava niente con l’Egitto, ovvero andare a vivere negli Stati Uniti per frequentare un master in fotografia documentaria. La decisione era stata presa da me, ma la sua definitiva approvazione spettava sia all’istituto a numero chiuso presso il quale volevo studiare, sia soprattutto al governo americano, un soggetto che per quanto riguarda visti e pratiche burocratiche è tutto fuorché garanzia di affidabilità.
Così, mentre i mesi passavano in attesa del visto, avevo elaborato una strategia di riserva; «se non sarà New York sarà Il Cairo», pensai. Avevo preso informazioni, trovato casa e una scuola di arabo da frequentare. A me quella zona lì, tra Nord Africa e Medio Oriente – la Mezzaluna Fertile insomma – ha sempre attirato tantissimo, mi sa proprio di casa; lo so, non è un’idea originale, anzi, il problema è proprio che l’abbiano avuta in troppi.
Comunque sia, il visto dagli Stati Uniti alla fine arrivò e quindi andai da loro. Chissà che magari un domani l’Egitto non torni di nuovo sulla mia rotta personale. Sicuramente lo è adesso, di fronte a me ho la pianta che lo rappresenta da millenni. Mi rendo conto solo ora che non avevo mai nemmeno immaginato che forma avesse. A sentire parlare di papiro io pensavo ai disegni dei geroglifici o alla forma dei rotoli, mai alla pianta. Eppure è da questa che si è sviluppata sostanzialmente tutta la nostra cultura, un peso mica da poco.
Il nome deriva da una parola egizia che significa “il regale” (almeno questo è ciò che leggo nel “Florario” di Alfredo Cattabiani, non ho trovato altre fonti, ma se lo dice lui ci credo); si tratta di un’erba perenne della famiglia delle Cyperaceae i cui fusti possono arrivare anche a cinque metri di altezza, terminando con un’ampia infiorescenza dalla forma sferica; questa ricorda un po’ l’Atomium di Bruxelles (ma non andrebbe detto perché non ci incastra niente, però se lo avete in mente rende bene l’idea; altrimenti potete pensare a un fuoco di artificio appena scoppiato, di quelli grossi, ecco, assomiglia anche a quello).

Papiro (Cyperus papyrus)
Il papiro è una pianta che cresce nelle zone umide del Medio Oriente e dell’Africa; in Italia lo si ritrova spontaneo nella provincia di Siracusa. A partire dalla lavorazione del midollo venivano creati dei fogli incollati uno di seguito all’altro, in modo tale da formare una lunga striscia arrotolata: il nome latino di questi rotoli era volumen (se si estendevano in orizzontale), oppure rotulus (in verticale, erano quelli più corti).
Oltre a un supporto per scrivere, il papiro è stato usato per altri innumerevoli scopi; può essere infatti mangiato, bevuto, usato per fabbricare oggetti, per costruire barche, scettri e bacchette magiche.
Abbiamo un legame così stretto con il papiro che in inglese (paper), in spagnolo (papel), in francese e in tedesco (papier), la parola carta deriva proprio da questa pianta. In italiano, benché si usi una parola diversa, riscontriamo un’origine abbastanza simile; carta viene dal latino charta, parola che indicava un foglio singolo, di papiro ovviamente.
Per capire quanto sia stato importante il papiro nella nostra cultura basta fare un semplice confronto: se siete persone abbastanza tecnologiche, è probabile che sia già passata una decina di anni da quando avete iniziato a usare telefoni, tablet o oggetti simili che richiedono l’utilizzo di un dito da passare sullo schermo. È una modalità di scrittura che ci appare totalmente naturale ormai, eppure sono passati solo pochi anni, niente rispetto ai 4 mila in cui il papiro è stato utilizzato; a partire dal III millennio a.c. fino all’anno 1057, momento in cui la cancelleria pontificia redasse l’ultimo documento su questo supporto. Uno dei problemi era la poca affinità con il nuovo territorio europeo, in particolare continentale; la civiltà che si stava formando era più a suo agio lì che non sulle coste meridionali del Mediterraneo, e questo rendeva ovviamente problematica sia la produzione che la conservazione del materiale.
È questo il motivo principale per cui abbiamo sempre più utilizzato prima la pergamena (di origine animale) e poi la carta moderna (di origine vegetale, sviluppata in Cina e arrivata in Europa attraverso gli Arabi).
Resta il fatto che il supporto che per maggior tempo ci ha accompagnati da quando abbiamo iniziato a scrivere resta ancora – e di gran lunga – il papiro.

Papiro (Cyperus papyrus)
Papiro e scrittura non sono sinonimi, ma certo si assomigliano parecchio.
Possiamo dire che la scrittura rappresenti uno sviluppo culturale piuttosto che naturale in senso evolutivo; i linguaggi si evolvono sempre, ma solo pochi di essi passano dalla forma orale a quella scritta. Teoricamente potrebbero farlo tutti, ma serve un motivo, una causa scatenante, un’esigenza. A un certo punto la nostra specie, in alcuni particolari frangenti della sua storia, ha sentito il bisogno di affiancare alle parole un secondo tipo di comunicazione, basato sulle lettere. È un fenomeno noto con il nome di alfabetizzazione.
Per quanto ne sappiamo oggi, i primi esempi di scrittura si possono collocare nella Bassa Mesopotamia, all’epoca dei Sumeri, più o meno cinquemila quattrocento anni fa. Il motivo per cui i Sumeri iniziarono a scrivere è tutto fuorché vicino ad una particolare sensibilità estetica nei confronti delle lettere; ingenuamente, io ho sempre pensato che quei tizi fossero così rapiti dalla bellezza che si poteva creare con il linguaggio da voler fissare per sempre sull’argilla alcune di queste espressioni. Mi piaceva l’idea di un popolo di antichi poeti tutti presi dalla bellezza dei loro versi, tanto che appena pronunciati volevano subito metterli per scritto: «bella questa! scrivi scrivi», immaginando che ognuno di loro avesse uno scriba personale.
La realtà però è spesso diversa da come ce la immaginiamo, e mi hanno detto che se alle elementari fossi stato più attento avrei ricordato come sia storicamente corretto attribuire l’utilizzo della scrittura cuneiforme a esigenze in un primo momento di calcolo matematico e successivamente di ordine amministrativo.
La società sumera nel III millennio a.c. sviluppa un sistema politico-economico dove la città ricopre un ruolo primario. Si tratta di una fase di grande espansione demografica, di scambi commerciali e di sempre maggiori territori messi a coltura; insomma senza un’adeguata gestione burocratica a regolare tutto il sistema … il sistema stesso sarebbe crollato. Avrei preferito un’origine diversa da quella amministrativa, ma accetto il verdetto per quello che è.
Tuttavia le cose non sono mai così nette e alle esigenze pratiche, mercantili, burocratiche o esattoriali si accompagna fin da subito l’utilizzo del linguaggio che più mi piace, quello che sembra fine a se stesso ma non lo è affatto; quello poetico e artistico. È quello che troviamo nelle prime testimonianze dell’arte funebre, nei motivi dei primi vasi di terracotta e prima ancora nei disegni rupestri. La cultura umana si è quindi sviluppata in base alla pressione delle esigenze pratiche ma anche di quelle dello spirito, due necessità così diverse eppure così strettamente connesse; sono i due lati della solita medaglia. Il linguaggio “normale” serve a parlare del mondo, quello poetico a parlare col mondo, c’è solo una proposizione che cambia, ma fa tutta la differenza … del mondo, appunto.

Papiro (Cyperus papyrus)
Quindi gli Egizi, che erano più o meno accanto ai Sumeri e con questi commerciavano, hanno importato la scrittura dai loro vicini di casa?
No. Non è andata così, però lo abbiamo pensato per diverso tempo perché effettivamente era la risposta più facile da dare: a trarci in inganno sono state soprattutto due cose, la prossimità geografica delle due culture e il fatto che i più antichi geroglifici rinvenuti siano successivi di un paio di secoli rispetto alle più antiche pittografie provenienti da Uruk.
Oggi la teoria più accreditata è che la scrittura si sia sviluppata in modo indipendente in varie aree del mondo in modo autonomo, sostanzialmente nel momento in cui se ne è sentito il bisogno (spesso quel momento ha coinciso con il passaggio da una cultura nomade a una stanziale, e tradizionalmente si attribuisce all’utilizzo della scrittura il passaggio dalla preistoria alla storia).
I primi esempi a noi noti (e quindi suscettibili di cambiamento nel momento in cui troveremo nuove prove) vengono dalla civiltà sumera (attorno al 3400 a.c.), dalla cultura vinča (area balcanica – ungherese) poi da quella egizia (circa 3250 a.c.), cinese (2000 a.c.) e infine centro americana (650 a.c.).
Ognuna di queste origini si può considerare indipendente e a sé stante. È probabile che gli Egizi sapessero che i Sumeri avevano trovato un modo per comunicare attraverso la scrittura, ma i linguaggi sono talmente diversi che non esistono motivi per credere che uno abbia influenzato l’altro.
Quello che invece è certo è che agli scribi egizi piacesse moltissimo scrivere. Non solo potevano contare su tre grafie diverse, il geroglifico (per solito destinato ai monumenti) lo ieratico (di fatto il corsivo del geroglifico) e infine il demotico (versione più tarda e popolare dello ieratico), ma nel momento in cui si affermò la modalità di scrittura in orizzontale da destra a sinistra – durante il medio regno – questi si potevano permettere veri e proprio giochi di parole combinando la nuova modalità con la precedente che invece procedeva in verticale; in questo modo hanno di fatto anche inventato le parole crociate, e pare che fossero bravini.
Noi, per capire cosa scrivessero, ci abbiamo messo parecchio tempo, ma per fortuna abbiamo trovato la Stele di Rosetta, altrimenti saremmo ancora persi in un’infinita serie di ipotesi senza senso. La particolarità di questo frammento è quella di portare iscritto il solito testo in tre modalità diverse: geroglifico, demotico e greco antico. Dei primi due non capivamo niente, ma conoscendo il terzo l’archeologo Jean François Champollion riuscì a decifrare gli altri due. La cosa ebbe un certo successo; a partire dal 1822, grazie all’abilità dello studioso francese, è nata l’egittologia e così oggi possiamo tradurre il linguaggio di questo popolo così vicino e così lontano.
Si va bene, Champollion è stato un grande e bene hanno fatto a Figeac – la città dove viveva, in Occitania, Francia del Sud, zona stupenda – a dedicargli un sacco di cose: c’è un liceo, un museo, una piazza e anche la riproduzione gigante per terra della famosa Stele; si trova in Place des Ecritures, tra Impasse de la Monnaie e Impasse Champollion, insomma se passate di lì non potete non andare a vederla. Se volete invece vedere l’originale dovete andare al British Museum. Cosa ci faccia a Londra stanno cominciando a chiederselo anche a Il Cairo; è dal 2003 che provano a chiamare il museo inglese per avere informazioni al riguardo. Pare che ogni volta che telefonano cada la linea; sarà il vento sulla Manica, è così imprevedibile.
C’è una domanda a questo punto che mi gira in testa: Rosetta chi è? Che ruolo ha avuto in questa storia, era anche lei un’archeologa, oppure una donna citata nella Stele, magari una dea, oppure la compagna di Champollion che ogni volta che partiva per l’Egitto gli diceva “fai attenzione, che le piramidi portano sfiga”.
La risposta ci riporta per terra, vicino al mare però, dove il Nilo entra con il suo delta nel Mediterraneo (zona di papiri, tra l’altro): Rosetta non è una donna ma una città, e il suo vero nome in realtà è Rashid; è lì che la Stele è stata ritrovata, dai soldati napoleonici, sconfitti poco dopo da quelli britannici. Sono stati questi ultimi a portare la Stele a casa, attraccando al porto di Portsmouth, nel 1802.
Io alla sfortuna non ci credo, ma da quel momento in avanti l’Impero Britannico ha iniziato una tale parabola discendente che – se fossi in loro – riporterei subito la Stele in Egitto; male che vada non succede niente e il tracollo dell’impero di sua maestà la regina prosegue indisturbato, ma vuoi mettere la differenza di stile.
È importante come si viene ricordati e questo gli egizi lo sapevano meglio di tutti.

Papiro (Cyperus papyrus)
È proprio vero che le cose si memorizzano in modo diverso a seconda di come si imparano. A volte ci scordiamo di quello che ci viene detto dopo pochi minuti, anche quello che studiamo non resta per sempre, ma quando alcune vicende si incontrano dal vivo hanno un sapore diverso, più vero, più intenso, e il loro ricordo resta per sempre ben impresso nella nostra esperienza.
È adesso, davanti a questa pianta, che i miei pensieri si trasformano in emozioni, non posso più starle di fronte come se fosse un’erbacea qualsiasi o ne vedessi la foto su Wikipedia; questa è un vero e proprio monumento dell’umanità e richiede rispetto.
Persino i coccodrilli glielo tributavano, pare che non attaccassero mai le imbarcazioni costruite con il papiro; era un atto di riguardo nei confronti di Iside, si ricordavano infatti di quando la dea era partita solcando il Nilo alla ricerca di Osiride.
Però se andate in Egitto e pianificate un giro in barca, magari chiedete prima conferma, non si sa mai.
Buon viaggio,
a presto,
F.

Papiro (Cyperus papyrus)
Ringraziamo l’Orto Botanico di Lucca per l’accoglienza.