Paperino, le Witch e il grande fumetto d’autore: il viareggino Federico Bertolucci fra i grandi della nona arte

Nel curriculum i lavori per edizioni Panini, una lunga collaborazione con Frédéric Brémaud e sette candidature agli Eisner Awards: “Non sempre andare fuori dai canoni è sinonimo di libertà: il fumetto deve restare fumetto”
A Lucca Comics & Games, abbiamo incontrato Federico Bertolucci, una persona che ci pregiamo di considerare amica.
L’intervista è stata condotta con la collaborazione di un altro ottimo artista e amico: Francesco Natali, che ringraziamo.
Nonostante sembri molto giovane, Federico ha già anni di esperienza nel campo del fumetto. Ha iniziato con la Disney…
- Nel 1999
Nel ’99 hai cominciato a pubblicare?
- Sì, la prima storia l’ho pubblicata quell’anno.
Hai pubblicato prima per Topolino o subito per le Witch?
- Prima qualche storia breve di Topolino, poi per fortuna sono arrivate le Witch che hanno avuto un gran successo. Ne ho realizzati parecchi numeri, tra regolari, speciali, edizioni Panini…
Vorrei parlare della tua esperienza all’Accademia Disney, un’istituzione che, credo, non esista più.
- No, non credo.
L’Accademia ha chiuso nel 2013. Fonte Wikipedia (n.d.r.)
L’Accademia aveva una funzione importante, secondo me, ma ha causato anche un grande attrito con la casa editrice dei tempi, così ricordo io. C’era parecchio fervore polemico attorno a questa realtà che, comunque, sfornava talenti ed era molto utile all’editore, ma anche alla crescita del fumetto in generale.
- È vero. L’associazione Accademia Disney non era a scopo di lucro. Formava talenti per un’attività culturale. Era collegata alla casa editrice, ma non c’erano obblighi di alcun tipo: i giovani che uscivano da lì avevano la possibilità di fare un colloquio con i redattori, i quali erano ben disposti a valutare persone formate da esperti dello stile Disney, però non era automatico l’inserimento. Molti, infatti, non sono riusciti a collaborare con l’editore. Io ho perseverato e ce l’ho fatta.
È stata dura per tutti, perché, come dicevi tu prima, c’era questa dualità: probabilmente la redazione, che era indipendente, non voleva troppi condizionamenti da parte dell’Associazione. Non c’era quindi garanzia di un lavoro sicuro per chi usciva dall’Accademia, ma era certamente una grande possibilità. Per me è stata l’occasione della vita.
Chi sono stati i tuoi maestri?
- All’Accademia, il primo docente è statoBarbucci. Mio coetaneo, all’epoca avevo 24 anni, ma espertissimo, perché lavorava già da tempo. Un mostro, un talento puro. Ci ha insegnato i segreti della recitazione.
La seconda parte del corso era dedicata alla regia. Le lezioni le teneva Roberto Santillo, all’epoca direttore dell’Accademia. Validissimo e preparatissimo direttore, non disegnava più perché ormai il suo lavoro era un altro, ma era davvero un ottimo insegnante.
Fu davvero una bellissima esperienza.
Beh, i risultati si vedono
- Ancora oggi, di quegli insegnamenti faccio tesoro. Nell’ultimo Paperino che ho fatto, pensavo tantissimo a quelle nozioni di base che mi furono insegnate all’Accademia. Mi sono state utilissime e le ho utilizzate tutte, cercando di ottenerne sempre il massimo. Ogni volta che faccio un fumetto, le regole che applico sono quelle che ho imparato lì.
Dopo l’Accademia hai lavorato per Disney, però poi hai imboccato strade che ti hanno portato a fare fumetti diversi da quelli definiti “per ragazzi”. Hai fatto Love, Brindille, Riccardo Cuor di Leone e tanto altro, fino ad arrivare all’ultimo Paperino… senza contare tutto quello che, immagino, hai in preparazione. Hai lavorato quasi in esclusiva con uno sceneggiatore francese…
- Sì. Ho conosciuto Frédéric Brémaud quando facevo le Witch. Lui cercava dei disegnatori italiani per un suo progetto e io mi ero presentato. I miei disegni gli piacquero e iniziò questa collaborazione che prosegue da 16 anni. Oltre a essere un bravissimo sceneggiatore, Frédéric tiene i contatti con gli editori. Essendo madrelingua francese, riesce molto meglio di me a proporre i progetti, inoltre aveva già pubblicato delle cose ed era ben inserito nel mondo del fumetto francese. Così, io non ho dovuto faticare per niente, ho solo disegnato i progetti via via accettati dagli editori. Grazie alla sua esperienza, Frédéric sa scegliere l’argomento giusto, sa ciò che può piacere agli editori e al pubblico in un determinato momento storico.
Sia io che lui, abbiamo fatto del fumetto un lavoro, un mestiere di cui poter vivere, non un secondo lavoro.
Brémaud, come te, è eclettico, scrive storie di tutti i tipi. Anche l’ultimo Paperino l’hai fatto con lui ed è una storia muta. Lo dico per quei lettori che ancora pensano che il lavoro dello sceneggiatore di fumetti sia inserire i dialoghi all’interno delle nuvolette. Qui non ce ne sono.
Com’è lavorare con lui? Come vi interfacciate?
- Fin dalle prime storie, abbiamo avuto un bel rapporto alla pari: lui non mi consegna una sceneggiatura completa, già pronta e poi io la disegno come mi pare. Ne discutiamo in ogni fase, dall’idea alle gag, dal soggetto alla sceneggiatura.
Lui mi parla di quello che ha in mente, io lo traduco in disegno, allora guardando quello che ho fatto, si lascia ispirare e cambia… è una collaborazione alla pari e molto creativa.
Lavorare così è piacevolissimo e, alla fine, non so più dirti cosa è suo e cosa è mio, sia riguardo la sceneggiatura che il disegno. Alcune volte mi fa cambiare delle cose, perché si accorge che non funzionano e io, anche se ci ho messo tanto impegno, devo riconoscere che ha ragione lui. Viceversa, a volte mi accorgo di qualcosa che non funziona nella sceneggiatura e la cambio in fase di storyboard; lui si accorge che funziona meglio e… si va avanti così.
Un bel lavoro a quattro mani, insomma…
- Sì. E fare un fumetto muto è la stessa cosa che farlo con le parole, con la differenza che lì conta essenzialmente il ritmo della narrazione e tutto si basa sulle immagini, ma lo sceneggiatore non è che non scrive nulla. Deve trovare il ritmo giusto per raccontare la storia e anche una regia. Ecco, lì è tutta regia, si tratta di adottare la punteggiatura giusta: dove accelerare, dove andare più lenti, dove inserire più azione e dove, invece, soffermarsi di più con lo sguardo. Quindi, vignette grandi, ritagliate… un lavoro molto difficile, forse anche di più i fase di sceneggiatura, perché non hai l’uso delle parole per aiutarti: non c’è la didascalia tipica che vediamo, per esempio su Topolino, “Contemporaneamente, dall’altra parte della città…”.
Noi abbiamo fatto un fumetto sugli animali e gli animali non parlano. Abbiamo quindi scelto di realizzare una storia muta, senza nemmeno le onomatopee, usando degli escamotage anche difficili da realizzare in un fumetto. Nel cinema è diverso, per alcuni passaggi di tempo o luogo puoi usare la dissolvenza incrociata che nel fumetto non c’è. Ma qualcosa ci siamo inventati: nel finale c’è una successione di vignette uguali, che vanno a sparire piano piano…
Francesco Natali: Hai dovuto studiare tanta anatomia animale o l’avevi già nel tuo “arsenale”? Perché disegni immagini di serpenti o di animali che atterrano dall’alto con un realismo certosino…
- L’avevo già nel mio Dna, perché sono cresciuto in campagna, circondato da animali: gatti, cani, caprette, oche…
Per me gli animali hanno sempre avuto la stessa importanza delle persone. Non ho mai fatto una distinzione in base al fatto che l’umano parla o interagisce; interagisco anche con gli animali, alla fine. Per cui, ho sempre disegnato gli uni e gli altri.
Francesco Natali: Quindi, disegnare un gatto che salta o una tigre, non fa tanta differenza: alla fine, le articolazioni sono simili…
- Esatto. La schiena si piega all’incirca nello stesso modo, la flessibilità e il modo di camminare sono tipici di un po’ tutti i felini… i cani sono diversi…
È stato difficile essere ammessi all’Accademia?
- Ti racconto un aneddoto, per farti capire. Una volta, venni a vedere una conferenza di Giovan Battista Carpi, a Lucca. Finita la conferenza, lui si mise a guardare i book dei ragazzi e mi misi in coda anch’io. Quando fu il mio turno, gli mostrai i miei lavori dicendogli che, come gli altri, li avevo già spediti a Milano insieme alla richiesta di ammissione all’Accademia. A quelli prima di me, aveva fatto “un mazzo tanto”. Carpi era uno che non le mandava a dire…
Era già avanti con gli anni, si poteva permettere qualsiasi cosa…
- Esatto. Io ero terrorizzato. Vedevo quello davanti a me, bravissimo, faceva delle cose che sembrava Cavazzano… e lui gli fece un mazzo così.
Invece a me fece i complimenti e mi disse che sarei stato ammesso.
Dopo quell’incontro, tornando a casa, camminavo a mezz’aria dall’emozione, tanto che avevo l’impressione che l’amico che mi accompagnava dovesse tenermi per la giacca per non farmi volare via (risate)
Francesco Natali: Volevo chiederti, a proposito di Carpi, non c’era quando studiavi all’Accademia?
- Lui era il fondatore, ma quando c’ero io non insegnava più, era presidente.
Francesco Natali: Perché ho letto un’intervista a Silvia Ziche, in cui dice che Carpi era tra i suoi insegnanti…
- Sì, lei frequentò qualche anno prima di me, mi pare.
Vorrei tornare a Love e a Paperino, perché tu hai parlato di regia, ma avevi anche accennato al fatto che ti insegnavano la recitazione.
Trattandosi di fumetti muti, la recitazione diventa essenziale, molto più importante che in un fumetto “parlato”, in cui dialoghi, onomatopee e didascalie possono coprire alcuni difetti.
Devo dire che i tuoi personaggi recitano molto bene. Quello di Paperino, in particolare, ha una recitazione da Oscar. Mi ha ricordato quei corti Disney che davano in TV quando eravamo bambini…
- E a cui mi sono ispirato. Ho fatto un mix tra le mie letture, che erano Barks, e quei cartoni animati lì. Un po’ perché la roba che dovevamo fare aveva un contenuto sulla scia di Love: la collana Glénat Disney prevede il coinvolgimento, su personaggi Disney, di autori già affermati. Noi ci eravamo affermati con Love, una serie di fumetti muti, quindi abbiamo deciso usare il muto come cifra distintiva. Abbiamo scelto Paperino: quante volte lo abbiamo visto nei cartoni animati in deliziose gag in cui non c’era davvero bisogno di parole. In questa storia ho messo dentro tutto l’amore che provo per il personaggio.
E traspare, traspare tutto.
- È un personaggio che conosco bene, ci sono cresciuto. Lo conosco intimamente, proprio perché sono fan di Barks, che ne è il principale autore.
È vero che non lo ha inventato lui, ma è colui che ha dato spessore al personaggio, gli ha creato un mondo intorno…
Barks ha inventato l’umorismo del 20° secolo, fatto di gag quotidiane. Ha inventato i Simpson, praticamente. I Simpson non esisterebbero se non ci fosse stato Paperino; i personaggi corrispondono quasi perfettamente: Paperone è Mister Burns; Springfield, con le figure che la vivono, è Paperopoli.
A parte questo, le sue storie d’avventura sono state riprese da Spielberg, con Indiana Jones che ne replicava lo spirito avventuroso, ma anche divertente… Barks è stato un genio assoluto.
Tornando ai tuoi lavori, alcune scelte di “regia” narrativa, mi ricordano da vicino i lavori di Gianni De Luca.
- Non lo conosco.
Si tratta, si trattava, dato che non è più tra noi, di un grandissimo maestro del fumetto mondiale…
- Questo ti dà l’idea della mia ignoranza…
No, guarda, De Luca, purtroppo, è uno dei grandi autori dimenticati da questo paese, per fortuna Nicola Pesce Editore sta ripubblicando diversi suoi lavori. De Luca è un innovatore. Lui usava le pagine senza vignette da molto prima di chiunque. Forse Eisner è arrivato prima, ma non ne sono sicuro. De Luca muoveva i personaggi nella pagina con una grazia e una sintesi poetica inarrivabili, poi narrava di tutto: storia, fantascienza, letteratura… era un autore davvero unico. E certe tue scelte stilistiche me lo hanno ricordato.
Poi lui disegnava intere sequenza senza parole.
- Ma il racconto per immagini è senza parole. Il cinema muto è senza parole. La narrazione sequenziale nasce, essenzialmente, come pantomima. I primi cartoni animati di Topolino si basavano su Chaplin, colui che ha reso il cinema muto un capolavoro.
L’immagine che narra è qualcosa che conosciamo da tempo, basta entrare nelle chiese o guardare Giotto o la colonna di Traiano. Ti metti lì, la leggi… certo, ci vuole una scala per andare su, ma… (risate).
Anche oggi ci sono fumetti con poche parole e molte innovazioni: è uscita qui a Lucca la traduzione italiana dell’ultimo lavoro di Chris Ware: una scatola di legno con dentro 16 fumetti, 16 formati diversi che, uniti insieme, narrano un’unica storia. Un paginone ripiegato, cartoline, striscie… Puoi iniziare da uno qualsiasi dei 16 frammenti, la storia avrà comunque un senso compiuto.
- Una bella operazione di narrazione innovativa.
Beh, Chris Ware è un altro grandissimo maestro. E citando questi maestri, volevo portarti a parlare di quello che, secondo te, è il fumetto oggi: si può ancora parlare di fumetto? Dobbiamo usare il termine graphic novel oppure rischiamo di non vendere? Il fumetto non manga (ché quello un pubblico ce l’ha, per fortuna), che futuro ha?
- Mah… io, con Paperino, sono tornato indietro, ai classici, ai vecchi cartoni animati. Tutti mi hanno fatto i complimenti, perché gli autori che hanno lavorato alla collana prima di me, hanno cercato di essere innovativi, anche nel tratto. Non sempre, però, andare fuori dai canoni è sinonimo di libertà, non sempre è la scelta migliore. A volte, bisogna restare dentro i canoni, io dico che il fumetto deve restare fumetto. Le cose migliori che ci sono in Italia, secondo me, le ha prodotte e le produce Ortolani. Non fa roba iper-intellettuale, difficile, non si mette su un piedistallo d’artista, tipo “io sono io e voi non siete nessuno”. Lui fa fumetto. Lui fa Rat-Man e ti fa schiantare dal ridere, lo fa talmente bene che è popolarissimo, eppure riesce a metterci dentro la poesia, dei contenuti forti…
Io non ne ho letti molti, di Rat-Man, per mia sfortuna, anzi, fortuna: così avrò modo di leggerli con calma, quando li recupererò… però il numero 100 (o il 99, adesso non ricordo), è una roba meravigliosa, è un meta fumetto: lui che diventa l’autore che parla di come fare i fumetti… è grandissimo. Un autore grandissimo, non ci sono altre parole.
Gipi è uscito qui a Lucca con Barbarone e il pianeta delle scimmie erotomani. Ho letto le prime due pagine e sono morto dal ridere, poi lo leggerò per bene, ma noto che lui ha tenuto a scrivere un fumetto. In copertina c’è il fumetto, nei post in cui ne parla, dice “è un fumetto”.
Per far piacere i fumetti, facciamo i fumetti. Non facciamo cose super-esagerate, che si avvicinano ai libri per avere uno spessore… lo spessore ce l’ha anche il fumetto.
Il fumetto vero, più puro, è la strip: 3-4 vignette che ti danno un ritmo. È breve, ti fa ridere, ti fa pensare… Calvin & Hobbes di Watterson. Più di quello…
Quello è il fumetto. Quando vedi le vignette quasi vuote, col personaggio che fa la battuta e poi, pausa, silenzio e… BAM! Il finale. Quello è IL fumetto.
In bianco e nero, non occorre neanche colorarlo… secondo me, se si tornasse a quello… Anche considerando la velocità della nostra epoca, in cui nessuno legge più a lungo, la vignetta singola o la strip, funzionano: sono fruibili e veloci.
Secondo me, dovremmo tornare un po’ alle origini. I giornali, per vendere di più, dovrebbero tornare a pubblicare la pagina a fumetti, magari facendo contratti di esclusiva con gli autori per evitare la “concorrenza della rete”.
Francesco Natali: Restando in argomento, secondo te il fumetto ha una vita oltre la serialità?
- Il serial ha un suo senso, anche se oggigiorno un po’ perde, perché con la stessa facilità con cui prima si comprava Dylan Dog per seguire le gesta del personaggio, trovi delle serie su Internet.
Su Netflix, Prime o altre piattaforme e, invece di leggere, hai uno schermo che ti offre cose meravigliose.
Negli anni ’90 non c’erano molte alternative ai personaggi a fumetti che andavano di moda. Se volevi seguirne le avventure dovevi comprare “il giornalino”. Ora, invece, è tutto disponibile in rete. Il fumetto mantiene la serialità dove e finché può, ma una volta che lo zoccolo duro di appassionati non ci sarà più, sarà difficile che continuino personaggi come Tex o Dylan Dog.
Non so se in Bonelli ci sarà un ricambio di lettori, infatti il grosso sforzo della casa editrice è di rinnovare il parco lettori con iniziative come “Drago Nero” o il Bonelli Cinematic Universe.
Vale lo stesso per l’Uomo Ragno…
Francesco Natali: Ho sentito che la Bonelli fatica a trovare un pubblico nuovo per Tex, per esempio…
- Non mi stupisce, anche perché il western è stato un po’ abusato come genere. È piaciuto tantissimo fino a tutti gli anni ’70. C’era gente che andava a vedere i cowboy, qualsiasi cosa facessero. Poi Sergio Leone ha prodotto film in cui, essenzialmente, c’erano cowboy che si guardavano male… (risate)
Ortolani, a proposito, ha fatto un grande western.
- Non l’ho ancora letto, ma Ortolani può fare tutto, è il dio dei fumetti in Italia.
Ma ci sono delle cose bellissime di genere western. Io non l’ho mai seguito più di tanto, ma ci sono delle cose pregevoli. Ci sono grandi film ovviamente… poi c’è una serie che ho visto di recente, si chiama 1883, che è fatta molto bene. Un realismo eccezionale, un pugno nello stomaco a ogni puntata, attori bravissimi… ah si, però c’è un difetto… quando si sparano, giustamente, non si prendono quasi mai, anche perché cavalcando è difficile colpire il bersaglio, però… mai una volta che colpiscano un cavallo! Non è credibile…
Vabbè, l’unico difetto che ho trovato è quello. Mi è piaciuta tanto.
Ecco, il western lo puoi rinnovare, ma se continui a fare Tex come sempre, che è vestito di giallo anche di notte… Perché c’è questa regola, lo sapete? Quando me l’hanno raccontata mi ha fatto ridere: la camicia di Tex dev’essere gialla anche di notte, non può avere altri colori, quindi c’è questa “fiamma” che si staglia nella notte… (risate).
Queste sono regole obsolete, la gente ha voglia d’altro. Ma ovviamente, se cambi, rischi l’abbandono dei lettori storici…
A proposito di lettori, tu ti sei fatto un’idea di chi siano i tuoi? Qual è il tuo pubblico?
- Eh… Bella domanda.
Il mio pubblico sono io, quello che faccio deve piacere a me, per primo.
Poi però penso anche che quando si racconta una storia, debba piacere a tutti, perché non amo molto andare a settori, fare cose per bambini o per grandi, per femmine o per maschi… non lo trovo vincente, mi sembra inutile. Ciononostante, un pubblico c’è.
Brindille, per esempio, piace molto a un pubblico femminile. In Italia è un pubblico adulto (25-30 anni), in Francia, invece, piace molto alle ragazzine (11-16 anni).
Love piace a tutti (giovani, anziani…) perché gli animali piacciono a tutti ed è un punto di forza del progetto.
Paperino, penso che piaccia a tutti, perché è Paperino e poi perché è ricco di gag visive che piacciono sia ai bambini che ai grandi.
La cosa che ho sempre amato delle storie di Topolino di una volta, era la doppia lettura che le caratterizzava: piacevano ai bambini grazie ai personaggi buffi e piacevano agli adulti perché c’era la satira di costume. Ricordo che io e mio padre ridevamo leggendo la stessa storia del Topolino di Gottfredson, ma ridevamo di cose diverse. È questo il segreto per mantenere fedele il lettore, fare in modo che il bambino continui a leggere le storie anche da adulto e, magari, che le faccia poi leggere ai propri figli.
Tornando al mio pubblico, beh, è formato da lettori di fumetti, che costituiscono già una nicchia.
E in casa tua? La tua famiglia legge i tuoi lavori? Come li prende?
- Mia moglie è archivista e non aveva grande cultura dei fumetti. Piano piano le ho fatto leggere le cose che per me contano e le ha apprezzate, perché sa riconoscere le cose belle. Lei, però non è una lettrice di fumetti e le cose che le sono piaciute di più esulano dal racconto seriale; a lei Dylan Dog non piacerà mai. Anche Topolino e Paperino, li ha letti ma non si è appassionata più di tanto.
Ha amato Calvin & Hobbes e reputa le opere di Gipi favolose, ma perché toccano temi più profondi, più seri.
A me serve tanto questa sua “estraneità”, perché mi da il senso di quello che faccio: so che, quando le mostro un mio lavoro, posso contare su un suo giudizio vero. Se mi dice “è bello”, mi accorgo subito se è sincera; se mi dice “mmm, sì”, lo butto via e lo rifaccio (risate).
A volte mi ha detto che non andava bene e io mi sono inquietato. Ci avevo messo tanto impegno, ero stato attento alla composizione… ma poi ho dovuto ammettere che aveva ragione lei, c’era qualcosa che non andava. Il “non lettore” nota qualcosa che esula dalla tecnica o dall’impegno e riguarda solo il fatto che il lavoro funzioni o no.
Le figlie sono cresciute in una casa piena di fumetti, hanno letto tutti i fumetti che ho, ma non si sono appassionate, come feci io con Topolino e Paperino. È vero che erano altri tempi, io avevo solo quelli in casa. Per distrarmi avevo solo i fumetti, non c’erano le serie TV o i canali dedicati ai cartoni animati, quindi è diversa la storia.
Loro sono abituate a vedermi disegnare e mi vedono sempre da solo, tanto che la bimba piccola dice di non voler fare la fumettista perché non vuole avere un lavoro sfigato come il mio (risate). Tra l’altro è bravissima a disegnare. La grande è una lettrice e scrive benissimo, è appassionata di scienze…
Sono ancora ragazzine, ma gli stimoli in casa non mancano e questo è un bene.
Io sono la figura che lavora in casa e le porta a scuola e in giro. Mi vedono disegnare e basta, praticamente, per cui lo credo che non vogliano fare il mio lavoro, hanno ragione.
Francesco Natali: Non vedono la parte del successo…
- Iniziano a vederla un po’ adesso: a volte le ho portate in Francia, a qualche festival, e si stupiscono: “papà, ma come ti trattano bene”, “ma sei importante”…
Ma io non sono certo un fumettista blasonato, io faccio il mio lavoro. Dico sempre che il mio più grande successo, è essere riuscito a viverci di questo lavoro e, con il fondamentale aiuto di mia moglie, a tirarci su una famiglia. Credo sia la cosa più difficile.
Di questi tempi sì.
- Questo è il mio successo. Non tanto il pubblico, gli articoli, i premi… ci sono stati anche quelli, ma non sono la mia misura del successo. Poi, io non sono un tipo social… insomma, non sono quello sulla bocca di tutti.
Ci sono autori che si sono costruiti un pubblico, io non sono così, faccio il mio, lavoro per l’estero, faccio le mie cose, ho le mie soddisfazioni…
Sei stato candidato a dei premi anche in America.
- Sì
Premi importanti…
- Me li vuoi far dire?
Sì (risate)
- Ho avuto sette nomination agli Eisner…
Gli Eisner Award, per chi non lo sapesse, sono i Nobel del fumetto. Qualcuno dice gli Oscar, ma secondo me sono i Nobel del fumetto.
- Addirittura… Ai Nobel veri, però, danno dei bei soldi…
Eh, lo so, ma l’importanza che hanno, soprattutto per il nome che hanno… Il fatto che Will Eisner fosse ancora in vita quando gli hanno dedicato questo premio, ne indica la statura. Quando un artista non americano è candidato a questo premio, per me non è una cosa banale.
- Sì, però mi piacerebbe anche che, prima o poi, invece di nominarmi e basta, me lo dessero questo premio. L’ultima volta, un po’ l’ho sperato, perché eravamo alla settima nomination…
Pensa a Di Caprio, poverino…
- Già, lui a quante nomination è arrivato?
Francesco Natali: Che nomi c’erano in gara con te?
- L’ultima volta, non mi pare ci fosse nessuno che conoscessi, ma era tutta gente brava. Ha vinto, però, quella che avevo detto io: quella con l’editore più grosso (risate). Mi hanno detto che funziona così
Per la verità, non sempre, anche se gli editori grandi hanno più possibilità…
- È per via del voto popolare. Mi hanno detto che la candidatura la fa la giuria di esperti, poi il voto è popolare, quindi quelli che hanno più lettori sono avvantaggiati.
Magari, prima o poi, ci sarà l’occasione, ma anche se non ci fosse… chi se ne frega, sono già contento così.
Però, arrivare a essere nominati a un premio così importante…
- È enorme. Il primo anno ero fuori di testa, non capivo niente; il secondo anno dissi “ma come? Ancora? Ma è impossibile” (risate). Il terzo anno ho iniziato a farci l’abitudine. Le sette nomination le ho avute in quattro anni. Tre per i libri, insieme a Frédéric, quattro nella categoria best multimedia painter, una dicitura strana, che non ho mai capito bene.
Credo che identifichi chi usa tecniche pittoriche non convenzionali, anche se ormai lo sono diventate, visto il largo uso che si fa del computer.
- Comunque, è una bella categoria, sono contento di starci dentro.
A parte quello, ho avuto la soddisfazione di vincere il Gran Guinigi, qui a Lucca, nel 2011, mi pare. Poi ‘U Giancu a Rapallonia, il Romics d’oro ecc… ma la soddisfazione più grossa è stata la mostra, allestita nel Palazzo Ducale a Lucca. Quello è stato il top, di più non credo che potrò mai ottenere.
Mai mettere limiti alla provvidenza…
- Ma io sono già contento così. Poi, ho la stima dei colleghi e questo è impagabile.
Le mostre, i premi, sono obiettivi che non mi sono mai posto. Io ho fatto il mio lavoro per avere i miei soldini a fine mese con cui contribuire a crescere le mie figlie. E devo dire che senza mia moglie non ci sarei mai riuscito.
Con Disney e col fumetto in generale, ho stentato parecchio. È stato fondamentale il sostegno, morale e materiale, di mia moglie. Mi è sempre stata accanto, mi ha aiutato nei momenti difficili in cui attendevo le risposte degli editori, ma non solo: fu lei a spingermi a spedire il book all’Accademia Disney. In realtà, mi costrinse a metterlo insieme e poi lo spedì lei. Senza mia moglie non so cosa sarei oggi. Sicuramente non un fumettista.
Io e tutti i tuoi ammiratori ringraziamo sentitamente la tua signora.
Francesco Natali: I colori non li compri, visto che disegni in digitale…
- Io disegno tanto in digitale. Solitamente disegno su carta, scansiono e poi coloro in digitale, perché è più veloce.
Ultimamente ho cercato di mixare un po’: faccio delle bozze digitali, le porto su carta e le rifinisco e coloro a mano.
Nell’ultimo Paperino, hai usato una tecnica come quella che descrivi, mi pare…
- Sì, esattamente quella. Ho impostato le pagine, per avere dei buoni disegni, con Photoshop, perché potevo correggere, ingrandire e modificare più facilmente, poi le ho riportate su carta. Inchiostri e tempere sono su carta.
La cosa importante è che ora lavoro per i videogiochi.
Questo non lo sapevo
- È una cosa abbastanza recente, da un paio d’anni ho trovato questo lavoro che mi ha cambiato la vita. Sto lavorando per Moon Active, che è una ditta… una ditta… così è brutto da dire… una casa di produzione israeliana in crescita enorme, che produce giochi di grande diffusione per i telefonini.
Per loro faccio tutto in digitale, imposto la linea, le schermate del gioco, i layout. Poi, altri li colorano in modo talmente professionale che sembrano quasi in 3D.
A me i videogiochi interessano poco (ok boomer), però costituiscono la frontiera odierna dell’intrattenimento. Gli sceneggiatori bravi non lavorano più per il cinema, ma per i videogiochi, perché i soldi sono lì.
- Pensa che, la differenza tra i videogiochi Playstation e quelli per i telefonini è la stessa che passa tra l’alta moda e il Prét à Porter. Quest’ultimo è più popolare, ma fa il guadagno vero delle case di produzione.
C’è molta domanda per questo tipo di lavoro, perché è in forte crescita. Ai ragazzi che escono dalle scuole di fumetto o dall’Accademia, dico sempre di guardarsi intorno: non c’è solo il fumetto.
Quando eravamo ragazzi noi, c’era solo il fumetto e i cartoni animati, ma per questi dovevi andare in America o al limite riuscire a entrare allo Studio Bozzetto.
Adesso io lavoro cinque giorni a settimana per loro, sei ore al giorno, da quando porto le bimbe a scuola a quando le torno a prendere e il resto della giornata la dedico ai fumetti. Con più calma perché, finalmente, posso permettermelo.
Prima, per fare un esempio, mi proponevano un progetto e l’accettavo, perché non avevo altro da fare. Ora, è già successo, se mi propongono un progetto che non mi piace, ringrazio e lo rifiuto. Allo stesso modo, se mi propongono qualcosa che è pagata poco, però mi piace, posso permettermi di farla.
È un bel cambiamento. Un cambiamento epocale.
Per Moon Active io metto a disposizione il mio talento e la mia tecnica per sei ore al giorno. Faccio cose diversissime, a volte divertenti a volte meno, ma è un lavoro davvero super.
Bene, è un’ora e quattro minuti che parliamo, puoi denunciarmi per sequestro di persona. Prima però, ti faccio l’ultimissima domanda, quella d’obbligo, che chiude tutte le interviste fatte da gente poco originale come me: progetti per il futuro?
- Ah! Bella domanda. Questa non l’avevo mai sentita (risate).
Con Frédéric stiamo portando avanti una serie per Glénat, di cui è già uscito il primo numero in Francia: La Légende oubliée de Perceval (La leggenda dimenticata di Parsifal).
Parsifal è il cavaliere della tavola rotonda che va alla ricerca del Graal. Noi lo raccontiamo da quando era piccolino. C’è una storia che narra di sua madre che lo teneva nascosto nella foresta per paura che morisse in guerra, come i fratelli e il padre.
Lui, però, fugge e va cercare l’avventura, vuole diventare cavaliere. Durante la fuga incontra una fatina, che ci siamo inventati. È una fatina dei boschi, mandata dalla sua comunità a cercare un luogo leggendario in cui ancora risiede la magia che, nel resto del mondo, sta scomparendo.
Quindi si incontrano questi due personaggi, deboli, piccoli, indifesi che si trovano ad affrontare un mondo pieno di pericoli, aiutandosi a vicenda.
Il primo numero in Francia sta funzionando bene, sta piacendo molto.
Quanti volumi sono previsti?
- Quattro volumi. Per il secondo, dato che il mio tempo si è dimezzato col nuovo lavoro e anche perché voglio fare un altro Paperino, mi sto facendo aiutare da Daniela Vetro, una mia amica bravissima, che ha iniziato a sua carriera con me all’Accademia Disney.
Io faccio gli schizzi e lei completa le tavole. Io poi mi occuperò del colore. Il grosso del lavoro lo fa lei, alla fine. Anche il terzo e il quarto volume li faremo così.
Ne uscirà uno l’anno, il secondo dovrebbe uscire in Francia a settembre. In Italia saranno pubblicati insieme.
Poi, come dicevo, abbiamo in serbo un nuovo Paperino. Il primo è piaciuto tanto, ha avuto grande successo. Per il secondo stiamo pensando a pagine autoconclusive, di gag pure, da pubblicare prima su Picsou Magazine (lo Zio Paperone francese) mensilmente. Una volta accumulatone un numero sufficiente, le pubblicheremo in volume.
Comunque, i progetti con Frédéric non mancano mai. Ogni tanto mi chiama e mi dice che ha pensato a qualcosa e che bisognerà realizzarla, prima o poi. Con calma, però, perché vedi, io ho una mano destra, quella sinistra non la uso… (risate).
Quindi, progetti ce ne sono, ma il mio progetto principale è di lavorare sempre meno e riposarmi un po’ (risate).
A parte gli scherzi, ho trovato uno studio bello grande a Viareggio, sto finendo adesso i lavori. Finalmente avrò lo spazio che mi serve: voglio mettere un bel cavalletto grande e dipingere. Un po’ come fanno quelli che smettono di fare fumetti. Lo ha fatto Barks, lo ha fatto Watterson…
Credo che Liberatore lo faccia da una vita.
- Mi piace l’idea, anche per mia soddisfazione: nel fumetto è tutto piccolino e da vicino mi ci vogliono gli occhiali, ormai…
Come ti capisco…
- Ho bisogno di spaziare, di avere volumi ampi.
Così ci vedi bene e ti senti ancora giovane
- Sì, esatto. Potrò dire “oh, guarda come ci vedo sempre bene” con un pennello grosso così a fare i dettagli (risate).
Bene. Grazie Federico, è sempre un piacere chiacchierare con te.
- Anche per me. Alla prossima.