Pizza che passione, ma è un compleanno amaro per il patrimonio Unesco. Crolla il fatturato: “I ristori? Non vogliamo l’elemosina”

Viaggio nella realtà del prodotto più amato. L’asporto e la consegna a domicilio non bastano ad affrontare la crisi
C’è a chi piace sottile e croccante e chi invece la preferisce in teglia, alta, morbida e bella unta. Con il piccante vince la calabrese, fritta e ripiena è un must pugliese e poi c’è la classica napoletana: dai bordi panosi e soffici che solo a pensarci si blocca il respiro.
Quando è fatta bene, ovviamente: con poco lievito nell’impasto e il condimento abbondante al punto giusto, perché “il giorno dopo non deve rimanere pesante”.
È la pizza, un vero classico internazionale made in Italy che sta lottando duramente contro la pandemia. Complice l’assenza di turisti stranieri suoi voraci consumatori, fra le prime vittime della crisi economica ci sono infatti proprio loro, le pizzerie, che nel 2020 registrano meno 5 miliardi di fatturato: “Nelle regioni non ancora gialle sono più di metà quelle chiuse per il servizio al tavolo, mentre le altre sono duramente provate dalle limitazioni negli spostamenti e negli orari di apertura”, denuncia la Coldiretti, accusando le limitazioni introdotte dai nuovi decreti.
Che la zona sia gialla, arancione o rossa, infatti, poco importa: tutta l’Italia deve dire addio alla serata in pizzeria: “A rischio c’è il futuro di 63mila attività e circa 200mila addetti”, avverte ancora l’associazione. Un allarme lanciato non un giorno qualunque, ma nel terzo anniversario dell’iscrizione dell’Arte dei Pizzaiuoli napoletani al patrimonio culturale immateriale Unesco, avvenuto il 7 dicembre 2017.
Un compleanno decisamente sottotono per gli amanti della pizza, ma soprattutto per quanti hanno trasformato questa passione in lavoro. Come succede nel centro storico di Lucca, dove il servizio d’asporto e domicilio non è che “una debole boccata d’ossigeno”, parole della Coldiretti, in un’atmosfera da effetto serra.
Se infatti fuori porta “le ordinazioni nel week end non mancano, infrasettimanalmente calano ma comunque il servizio a domicilio un po’ ci salva” dicono le pizzerie Da Ninni a San Concordio e Da Fabio in Borgo Giannotti, invece la crisi colpisce duramente dentro le mura.
A raccontarcelo è lo Sbragia, pizzeria in Via Fillungo a conduzione familiare. Un’istituzione lucchese dal 1963: “Capisco che si tratti di una situazione nuova, imprevista e difficile da gestire, soprattutto nell’immediato. Tuttavia la pandemia è iniziata a febbraio e siamo ormai nella seconda ondata di contagi, ma le scelte che il governo continua a adottare verso noi ristoratori dimostrano poca sicurezza – racconta il titolare – Non hanno le idee molto chiare e si muovono da dilettanti allo sbaraglio, come dimostra l’ultimo stanziamento della Regione e i decreti ristoro: in questo momento, quale impatto concreto possono avere 2200 euro sulla mia attività? Sono solo una mancia che non mi dà nessuna tranquillità sul futuro”.
“Un futuro sempre più incerto – continua – perché rispetto al primo lockdown in cui qualcosa si è messo in cassa, poco ovviamente rispetto ai tempi passati, le ordinazioni attuali sono scese esattamente del 50%: segno che la gente ha pochi soldi e che il servizio d’asporto, pur regalando una piccola speranza, non ci farà sopravvivere. Se le vendite non aumentano rischiamo di tirare giù la saracinesca”.
Un rischio che investe l’intero settore agroalimentare, trascinato a catena nella crisi delle pizzerie. Capitolano in primis le produzioni di mozzarella, olio d’oliva, farina e salsa di pomodoro, seguiti a ruota da vino e soprattutto birra per cui le pizzerie rappresentano il principale canale di commercializzazione, sottolinea la Coldiretti. Infatti, nonostante l’incremento record del 16% degli acquisti e la classificazione di bevanda con il maggiore aumento nel 2020, il boom di birra nel carrello non compensa il crollo dei consumi provocato dalle chiusure di pub, bar, ristoranti e pizzerie ma anche dal blocco di fiere, sagre e street food.
“La chiusura forzata dei locali – conclude l’associazione – ha avuto un impatto devastante non solo sulle imprese e sull’occupazione, ma anche sull’intero sistema agroalimentare che ha visto chiudere un importante sbocco di mercato per la fornitura dei prodotti”.