
Sono oltre mille e 600 le persone che si sono rivolti almeno una volta, con una richiesta di aiuto ai centri di ascolto della Caritas in Lucchesia. Di questi il 23% per la prima volta quest’anno. Un dato che sottolinea una sensibile crescità dell’emergenza sociale in città ma anche e soprattutto in campagna. La persistenza del fenomeno di una povertà orizzontale, spesso invisibile ma in linea con quanto indicato anche a livello nazionale dai dati Istat, che denunciano un’esclusione sociale del 28,9 per cento in Italia nel 2017, è stata sottolineata anche a Lucca da Invisibili evidenze, il rapporto annuale Caritas sulle povertà e le risorse della Diocesi lucchese e che è stato presentato stamani (5 giugno), alla presenza dell’arcivescovo Paolo Giulietti, la direttrice dell’ufficio Caritas Diocesana di Lucca, Donatella Turri, la sociologa Elisa Matutini e il diacono Alessandro Toccafondi. Sarà illustrato alla città con un incontro pubblico alle 17, al salone dell’Arcivescovato. Come ogni anno, il rapporto fotografa la situazione delle fragilità sul nostro territorio e racconta il lavoro della rete Caritas, in accompagnamento a chi sperimenta situazioni di disagio. I dati raccolti nel 2018 dai volontari dei quasi 30 centri di ascolto Caritas e dal Centro di ascolto della Croce rossa di Lucca e del Gruppo volontari Caritas raccontano, come si diceva, di mille e 653 persone e nuclei familiari che si sono rivolti per una richiesta di aiuto. Di questi, il 23,29 per cento del totale (385) si sono presentati per la prima volta proprio nel 2018.
Le persone che si rivolgono al centro di ascolto sono nella grande maggioranza dei giovani: il 41,13 per cento ha meno di 44 anni e il 67,75 per cento ha meno di 54 anni. I cittadini con più di 65 anni, non in età da lavoro costituiscono l’11,56 per cento e quasi sempre sono di nazionalità italiana. La grande maggioranza delle richieste di aiuto che vengono formulate presso i CdA provengono da contesti familiari composti da coppia di adulti in età lavorativa con figli piccoli, oppure da famiglie monogenitoriali. Molte delle famiglie hanno figli, spesso 2 o più di 2, aprendo anche per qust’anno una finestra impressionante sulla povertà dei bambini. Questo appare valido sia per gli italiani, sia per gli stranieri. Le persone straniere che si sono rivolte ai Centri di ascolto della Caritas della Diocesi di Lucca nel 2018 sono state 927, registrando un piccolo calo in termini assoluti rispetto all’anno precedente e un lieve aumento di peso rispetto all’utenza complessiva. Le persone straniere sono molto più giovani di quelle italiane. Il 26,85 per cento ha meno di 34 anni, contro il 9,23 per cento dei cittadini italiani. La grande maggioranza delle persone accolte non italiane ha un’età compresa tra 25 e 54 anni (74,21 per cento). In molti casi siamo in presenza di persone che risiedono nei territori della Diocesi da molto tempo: quasi una persona su due vive in Italia da almeno dieci anni. “Si tratta di persone coinvolte in lunghe ed estenuanti battaglie per la fuoriuscita dalla povertà. In quasi nessuno dei casi la presenza agli sportelli ha carattere di cronicità e assistenzialismo. Al contrario, si è in presenza di persone con un’occupazione scarsamente retribuita o per poche ore settimanali, oppure disoccupati, ma che hanno lavorato per lunghi periodi, con una sistemazione abitativa – dicono i volontari -, seppur faticosamente trovata e con figli ancora piccoli, nati e cresciuti in Italia. La situazione lavorativa costituisce una delle loro criticità fondamentali”. Altra caratteristica chiaramente visibile nei dati e ben raccontata è il legame tra povertà educativa e condizioni di svantaggio socio-economico: “Esiste un circolo vizioso tra povertà economica individuale, povertà del contesto istituzionale e povertà educativa. La formazione delle persone che si rivolgono ai Centri di ascolto è tendenzialmente bassa, soprattutto tra gli italiani – spiega Caritas Lucca -. Una persona su due ha al massimo la licenza di scuola media inferiore. La bassa formazione è spesso correlata con la difficoltà a trovare un’occupazione. Il 64,73 per cento delle persone si definisce disoccupato, con una maggiore sofferenza lavorativa per le donne e gli stranieri. Il 10 per cento ha un lavoro che non basta a far fronte alle esigenze primarie dei familiari, mentre il 5 per cento circa ha una pensione. Le persone con un reddito percepito regolarmente che si rivolgono ai CdA sono il 15 per cento. L’altro nome della povertà è poi la solitudine – continua-. Tutti coloro che si rivolgono ai centri di Ascolto hanno pochissime relazioni, soprattutto per quanto riguarda la rete delle relazioni informali con parenti e amici. Esiste un circolo vizioso tra povertà e isolamento”. Le richieste formulate inizialmente dai cittadini sono quasi sempre legate al tipo di aiuto che le persone si aspettano di ricevere in base alla rappresentazione sociale storicamente diffusa di Caritas. Molti si rivolgono ai Centri di ascolto per la distribuzione dei beni raccolti dalle donazioni, ma il rapporto con i volontari in molti casi trasforma questo contatto in qualche cosa di molto diverso. L’ascolto e il dialogo costituiscono il pane quotidiano dei Centri. L’accoglienza della persona e il sostegno della sua dignità rappresentano il filo rosso attraverso il quale gli operatori cercano di costruire una relazione di fiducia e una alleanza per la costruzione di un progetto di cambiamento condiviso, che metta in gioco risorse e energie del soggetto, di Caritas e della rete degli enti che si occupano di lavoro sociale e della comunità. “Accompagnare ed accompagnare come comunità è la parola chiave del lavoro della Caritas – dichiara Donatella Turri, direttrice dell’ufficio pastorale Caritas – ed è la cifra dell’impegno degli operatori. L’idea di contrasto alla povertà che in questi tempi abbiamo cercato di costruire insieme alle comunità parrochiali, le molte associazioni e enti che si occupano di marginalità e le Istituzioni, è quella che deriva dalla costruzione di una comunità nuova, attenta ai bisogna, inclusiva. Una comunità in controtendenza rispetto alla cultura dominante, certo. Ma l’unica comunità che può davvero durare nel tempo e rendere le città un luogo bello dove abitare”.