
Il 6 gennaio del 1911 da “una famiglia di lavoratori. Brava gente versiliese che ha seguito per generazioni il lento ritirarsi del mare sino a Viareggio”, nasce Silvio Micheli. Diplomatosi perito tecnico industriale a Pisa, nel corso della sua vita lavora come disegnatore meccanico prima alla Piaggio e poi alla Fiat. La sua attività lo porta negli anni ’40 a Napoli, alle industrie meccaniche e aereonautiche meridionali, la sua “più duratura e soddisfacente esperienza lavorativa”.
Probabilmente a Napoli matura la sua poetica di narratore-storiografo, all’interno della quale assumeva una particolare importanza la classe operaia. Di essa Micheli sentiva di condividere le ansie quotidiane e le speranze per una società più giusta e umana. Giungeva così alla sua conclusione un itinerario culturale e politico che era iniziato nella Viareggio degli anni ’30, una città ricca di presenze significative come Viani, Pea, Jenco. Dopo il periodo napoletano, tornato a Viareggio, Micheli si dedica a tempo pieno alla scrittura. Per vivere collabora a quotidiani e riviste, come L’Unità, Vie nuove e Il mondo. Il suo esordio letterario è comunemente indicato nel romanzo Pane duro, scritto tra il 1940 e il 1942, che gli vale il premio Viareggio edizione 1946, la prima dopo la liberazione: un lavoro d’ispirazione neorealista, che denunciava la guerra, chi l’aveva voluta e le sue devastazioni materiali e morali. Secondo Italo Calvino, Pane duro rappresenta uno dei primi tentativi della nostra letteratura di mettere il lavoro al centro di un’opera narrativa, di costruire un “romanzo di fabbrica” sul modello della letteratura sovietica, allora imitata e ammirata. A suo giudizio, si tratta di un’operazione ancora non del tutto riuscita, ma in ogni caso interessante e apprezzabile per vigore di stile e sincerità d’ispirazione. Da una ricerca condotta alla Fiat nei primi anni ’50 risultò che Micheli era uno degli autori più letti tra gli operai torinesi. Non fa meraviglia, quindi, se il romanzo Pane duro e il successivo Tutta la verità, 1950, sono tradotti con grande successo in Polonia, Romania, Cecoslovacchia e Unione Sovietica. Come ricorda Cesare Pavese Pane duro è una delle prime esperienze narrative che riesca a spezzare ogni vincolo letterario parlando un linguaggio “nuovo e intatto”. In Tutta la verità, Micheli s’impegna a fondo per rappresentare il mondo del lavoro, una realtà ritenuta ‘bassa’ e poco degna di attenzione e di letteratura. La sua sensibilità muove verso la gente comune e tende anche alla rivalutazione della cultura tecnico-scientifica da sempre trascurata nella nostra narrativa. Tutta la verità fu un altro grande successo di Micheli, un esempio di letteratura capace di affrontare un nodo fondamentale della società italiana: la differenza tra le classi sociali. Micheli tornerà a parlare della condizione operaia anche nel romanzo Il facilone, 1959, costruito sulla figura di un operaio che si trova a gestire una piccola azienda familiare. Fabbrica e famiglia sono tutto il suo mondo e le sue ragioni di vita, ma le responsabilità che ne derivano non sono chiaramente e fermamente vissute. L’uomo tende sempre a sfuggirle, ripiegando dalla fabbrica alla famiglia e dalla famiglia alla fabbrica. Alla prospettiva di un sacrificio o di un impegno, perdute le speranze di segno collettivo fiorite nel dopoguerra, anche gli uomini sembrano mutati: l’individuo si ritrova solo e non c’è ambiente o idea che possa risollevarlo e farlo sentire uomo tra gli uomini. Cogliendo le minuta verità quotidiane di una fabbrica e di una famiglia, Micheli svolge un tema morale altamente drammatico, quello della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. Nello scrivere Micheli non fa distinzione tra storia e cronaca. Per lui nulla è più reale della cronaca e proprio per questo si imbarca nell’impresa di narrare la vicenda dell’Artiglio: una storia nascosta che ancora aspettava di essere raccontata, la vita e le gesta dei palombari e marinai viareggini che recuperarono un tesoro in pieno oceano Atlantico. Scrupolosissimo nel suo lavoro di ricostruzione, Micheli decide di intervistare i superstiti di quella straordinaria avventura, vecchissimi, in alcuni casi addirittura novantenni: per documentarsi non esita a trasferirsi a Trapani. Il linguaggio usato dallo scrittore viareggino è quello specifico dei marinai, gergale, secco, prosciugato che riportato sulle pagine dell’Artiglio ha confessato, 1960, ha contribuito a diffondere la fama marinara della Versilia. La moglie Vera Bucci e la figlia Silvia lo ricordano con affetto: era un uomo colto, amante dell’arte, che dipingeva e scolpiva nel tempo libero e riusciva anche a trovare momenti intensi per la famiglia, coinvolgendola nelle sue scelte e chiedendo consigli. Con la moglie e i figli c’era una grande confidenza: la figlia lo seguiva alle mostre o alle premiazioni, cui era invitato. Non va dimenticato, poi, il grave lutto che colpì lo scrittore e la sua famiglia con la morte del figlio, perito a soli 28 anni in un incidente stradale alla vigilia della laurea in biologia. Attivo e abitudinario ogni giorno faceva la sua passeggiata in pineta e scriveva tutta la notte. Amava il mare, ma praticava anche l’alpinismo. Schietto, non invidioso dei successi degli altri, amava la buona tavola e i suoi amici più intimi, i pittori Mario Marcucci, Eugenio Pardini, Renato Santini, e lo scrittore Giuliano Bimbi. Tra i suoi libri, oltre ai romanzi, vanno ricordati almeno Giorni di fuoco, 1955, memorie e analisi su temi resistenziali e una serie di articoli di viaggio raccolti in volume, Mongolia. Sulle orme di Marco Polo, 1964. Tra le numerose attività culturali di Micheli – e a testimonianza di un’attenzione alla modernità e al mutamento – non va dimenticato uno dei suoi ultimi impegni, quello di direttore di Televersilia, una delle prime reti televisive locali. Muore nel marzo del 1990, all’ospedale Tabarracci di Viareggio, dopo una lunga malattia, lasciandosi alle spalle la memoria di uno scrittore di qualità e di un impegnato organizzatore di cultura.
Luciano Luciani