
Fa discutere la questione dell’esposto in procura presentato da alcuni volontari di una associazione di volontariato della provincia di Lucca (Leggi l’articolo) in cui sollevano la questione dei rimborsi spese ricevuti come pagamento di quello che ritengono essere in realtà un rapporto di lavoro subordinato.
A intervenire sul tema è Daouda Ndoye, sindacalista e volontario egli stesso: “La Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo, ne promuove lo sviluppo salvaguardandone l’autonomia e ne favorisce l’apporto originale per il conseguimento delle finalità di carattere sociale, civile e culturale. Su questo argomento ha fatto recentemente scalpore un servizio andato in onda il 10 aprile 2016 sul canale televisivo Italia1, per il noto programma Le Iene, che denunciava l’esistenza di intere organizzazioni di volontariato fittizie operanti in ambito sanitario, che perseguono indirettamente fini di lucro e occupano quasi del tutto lavoratori in nero, mascherati da volontari. Queste organizzazioni si occupano di soccorso, un settore che in Italia è quasi totalmente affidato al volontariato, ma per cui la legge non impedisce di assumere regolarmente dipendenti, nel caso ve ne sia necessità. L’articolo 3, comma 4, della legge-quadro infatti stabilisce – cita Ndoye – che ‘le organizzazioni di volontariato possono assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento’. Tuttavia, per evitare i costi derivanti dal lavoro dipendente regolare, molte Onlus hanno escogitato l’escamotage di reclutare e formare persone che risultano come volontari, salvo poi instaurare con essi un rapporto di lavoro de facto – va avanti Ndoye -. Fanno infatti firmare a questi supposti volontari una dichiarazione scritta in cui attestano di ricevere un rimborso spese, ma poi li trattano come veri e propri dipendenti, e in alcuni casi assegnano loro turni giornalieri da 10 ore o più: con qualunque termine si definisca questo rapporto, certamente non è volontariato. Non lo è perché non è gratuito, non lo è perché viene fatto per fini molto lontani da quelli di solidarietà propugnati dalla legge-quadro del 1991, e non lo è anche perché una persona che svolge questa attività, con queste modalità, sarà sempre impossibilitata ad avere un vero lavoro, un lavoro regolare. Tanto più che i soldi utilizzati per pagare questi rimborsi spese sono pubblici, ossia sono quelli con cui le varie aziende regionali di emergenza-urgenza pagano le convenzioni 118 alle associazioni. Questi fondi dovrebbero essere destinati a coprire le spese sostenute dall’associazione per la benzina – suggerisce Ndoye -, per l’acquisto e la manutenzione delle ambulanze e degli altri mezzi utilizzati, per la gestione della sede operativa e per lo stipendio dei dipendenti regolari. Questa prassi, molto diffusa nella capitale ma sicuramente presente anche in altre regioni italiane, ha conseguenze di non poco conto: i finti volontari non hanno ferie, malattie, controlli sanitari stringenti. Si devono pagare personalmente la divisa, non vengono loro pagati i contributi e per lo Stato sono sostanzialmente disoccupati. Se non provvedono autonomamente, non avranno neanche una pensione”. Come del resto denunciano anche i volontari nell’esposto presentato alla procura: “Si parla di persone non professionalmente qualificate, che hanno fatto il classico corso per diventare soccorritore 118, ma in alcuni casi anche di infermieri e altre figure qualificate – spiega Ndoye -, come gli operatori socio-sanitari (i cosiddetti operatori socio sanitari). La situazione allarmante raccontata nel servizio potrà forse essere, come alcuni hanno commentato, estremizzata. Una punta della degradazione del volontariato e delle figure connesse. Tuttavia, anche se la situazione generale fosse meno grave, saremmo comunque di fronte a un problema di grande portata non solo sociale, ma anche economica e giuridica. Le immediate conseguenze non vanno a colpire i soli lavoratori in nero di queste associazioni, ma anche i pazienti trasportati, i quali potrebbero trovarsi di fronte un soccorritore stremato da 12 ore di turno, o un autista talmente stanco da addormentarsi alla guida. Perché questi lavoratori non hanno nemmeno un’associazione di categoria che li protegga o che faccia valere i loro diritti su un piano se non nazionale, almeno regionale”.