Fase 2, Petretti: “Il sistema sanitario è stressato, massima responsabilità”
Intervista alla consigliera con delega alle politiche della salute del Comune di Lucca, che ribadisce: centralità del territorio e necessità di comportamenti individuali responsabili. Un operatore sanitario su tre in burn out
L’andamento della curva dei contagi delle prossime settimane ci dirà l’efficacia delle misure intraprese. Questo, ancora, è un tempo sospeso e delicato: non c’è una cura certa, non c’è un vaccino contro Covid-19, e a fare la differenza sono, più che mai, i comportamenti dei singoli. A una settimana dall’inizio della fase 2 abbiamo posto qualche domanda a Cristina Petretti, consigliera con delega alle politiche della salute del Comune di Lucca. Una chiacchierata ampia, che torna sulla necessità di un paradigma di sanità pubblica capace di mettere al centro i servizi di prevenzione e cura territoriale.
Questa la direzione tracciata in Toscana, anche prima dell’esperienza del virus, che richiede lo sforzo collettivo di dismettere l’idea che solo l’ospedale, con i suoi posti letto, sia il presidio deputato a occuparsi di salute. Ma anche una conversazione sulle conseguenze della pandemia nel corpo sanitario e nelle relazioni civili. La tenuta del San Luca e il ruolo di Campo di Marte, i test sierologici e alcune riflessioni a tutto tondo che tengono insieme evidenze scientifiche e valutazioni politiche.
Nella fase 1, quella dell’emergenza, il ‘modello toscano’ ha retto meglio di altri l’onda d’urto dell’epidemia. Qual è stato il suo punto di forza? Dove invece si sarebbe potuto far meglio?La rete ospedaliera ha retto bene l’urto dell’emergenza pandemica riuscendo in tempi brevi a implementare i letti di terapia intensiva e semi intensiva che, anche nei momenti di picco, non hanno mai raggiunto livelli di saturazione.
I servizi territoriali e i dipartimenti di prevenzione si sono invece trovati più in difficoltà nell’agire tempestivamente sul tracciamento dei positivi e sul loro isolamento. Nonostante ciò il sistema toscano ha retto se lo confrontiamo con il caso lombardo, che avuto il tracollo peggiore avendo un sistema di sanità territoriale inesistente.
Il territorio, inteso come presidio di salute diffuso in grado di intercettare i bisogni e prevenire, laddove possibile, l’insorgere di emergenze, si rivela strategico soprattutto in fase 2, con i contagi che inevitabilmente torneranno a salire. Quali azioni possono essere messe in campo? Quali servizi ci sono?
Sappiamo bene che è mancata una fase territoriale di valutazione del virus, imprescindibile per contrastare un’epidemia come questa. Servono interventi territoriali in grado di prendere in carico la patologia già in fase precoce, individuando tempestivamente gli asintomatici per seguirli a domicilio ed evitare così l’ospedalizzazione. A questo fine sono state create le unità speciali di continuità assistenziale (Usca), composte da medici e infermieri, attive sette giorni su sette dalle 8 alle 20, una ogni 50mila abitanti. Le Usca hanno il compito di supportare i medici di medicina generale nella vigilanza dei pazienti a domicilio. Alle Usca è demandato anche il controllo sanitario nelle Rsa.
Covid-19, per quello che sappiamo, è una malattia con lungo decorso e lunga convalescenza. Superata la fase acuta, prima del rientro a casa, c’è la possibilità di accedere ad alberghi sanitari. Luoghi idonei anche per chi ha contratto il virus e non ha tuttavia necessità di cure intensive. Sa darci alcuni numeri su questa scelta nel nostro territorio?
La Regione Toscana offre a tutti i pazienti positivi che oggi sono in isolamento nella propria abitazione, quelli che non sono stati ricoverati in ospedale perché stavano abbastanza bene, e ai pazienti che dall’ospedale sono stati dimessi la possibilità di trasferirsi ed essere assistiti in alberghi sanitari. L’assistenza è garantita da personale Asl, medici e infermieri, e fornisce una maggiore garanzia di isolamento e controllo, in particolare per i pazienti che si stavano curando a casa, non sempre con spazi adeguati alla sicurezza dei conviventi. Sul nostro territorio ne sono stati attivati due, rispettivamente con 20 e con 14 posti letto.
Il sistema sanitario è stato stressato in modo consistente negli ultimi 2 mesi e, in nome della necessaria ripresa economica, andrà avanti nell’emergenza. Non c’è il rischio che il personale vada in burn out? Che chi cura finisca con l’aver bisogno di cure? Come si potrebbe arginare una situazione simile?
Il costo psicologico della pandemia per gli operatori della salute non può essere né negato né sottostimato. Non solo stress da corsia ma anche paura di portare il virus a casa. Eroi, ma anche fonte di pericolo. Uno studio condotto dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dimostra che un operatore su tre presenta segni di burn out e uno su due sintomi di stress psicofisico. È anche vero che gli operatori maggiormente motivati e formati all’assistenza dei pazienti e al sostegno dei familiari riportano livelli di stress inferiori: questo è stato un fattore protettivo. Formazione, lavoro svolto in sicurezza (dispositivi di protezione individuale) e recupero della relazione empatica sono tutti strumenti protettivi.
Su quali direttrici di politiche delle salute, socio-sanitarie, dovremo orientarci come Comune e come zona distretto? Cosa ci ha insegnato il virus?
Il principio guida che deve animare la riorganizzazione, non solo del nostro territorio ma di tutto il sistema sanitario nazionale, è il superamento della logica di assistenza per prestazione, che vede il paziente come cliente, per andare verso un’assistenza che garantisca la presa in cura globale della salute degli individui e della comunità. Questo significa vera integrazione tra servizi sociali e sanitari, tra cure territoriali e ospedaliere, tra competenze mediche e infermieristiche.
La crisi sanitaria e sociale determinata dall’emergenza Covid-19 ha messo in luce la totale assenza di coordinamento dei diversi attori. Bisogna cambiare il modello assistenziale, uscire dalla logica ospedale-centrica e puntare al potenziamento dei servizi di prevenzione e promozione della salute e delle cure primarie. Il territorio deve diventare il nuovo baricentro del sistema sanitario. È nel territorio che si decide la necessità assistenziale del cittadino.
Per ripartire in sicurezza dovremo individuare e isolare i portatori del virus. Per farlo occorrono screening a tappeto, come esami sierologici. E poi? Ci sono altre ‘ricette’ per vivere la fase 2 in serenità?
Per la fase 2 la Regione Toscana ha dato il via alla strategia delle 3T: testare, trattare, tracciare. L’obiettivo dello screening è far emergere il maggior numero di positivi al coronavirus, soprattutto gli asintomatici, per poi isolarli e tracciarne i contatti sociali. Con la terza ordinanza si allargano anche le categorie che potranno sottoporsi al test pagato dalla Regione, ad esempio ora sono stati inclusi i docenti delle scuole. Anche il medico di famiglia potrà prescrivere il test sierologico che, in caso di positività, dovrà essere confermato dal tampone. 500mila sono i nuovi test messi in campo, 120mila quelli già eseguiti. Ogni 10mila test sierologici, 300 risultano positivi ma solo 50 sono confermati da tampone.
Qual è stato il ruolo di Campo di Marte in quest’emergenza? Cambiano gli scenari di indirizzo per l’ex ospedale o la visione sul suo futuro, a vocazione sanitaria, è stata semmai confermata da quello che è avvenuto?
Alcune cose chiare l’emergenze Covid l’ha dimostrata. Hanno fatto fronte al virus gli ospedali ‘veri’, dove la dotazione tecnologica, organizzativa, umana e interdisciplinare ha tenuto. Sul nostro territorio l’ospedale San Luca è sempre stato in grado, con la sua capacità di espandersi e di contrarsi, di offrire una dotazione di posti letto di terapia intensiva e subintensiva in grado di rispondere alla domanda. Campo di Marte ha e continuerà ad avere una vocazione socio-sanitaria: uno spazio dove concentrare i servizi territoriali, i letti di degenza del territorio, delle cure intermedie e dove prevedere la presenza di aree di riserva attrezzate e pronte da aprire in caso di necessità.
Covid come trauma, come shock sociale. C’è chi dice che ne usciremo migliorati e chi sostiene che vivremo un tempo di nuovi e più feroci egoismi. Qual è la tua visione e cosa rischia il sistema sanitario pubblico italiano?
La fase 1 è stata più facile da gestire perché la paura del contagio ha facilitato l’obbedienza, il rispetto delle regole. La conservazione della vita biologica ci ha fatto rinunciare a molte cose che rendono la vita degna di essere vissuta. La fase 2 è più difficile perché deve governare una pluralità di esigenze, interessi, necessità, disperazioni. In questa fase è la responsabilità di ciascuna persona la leva della ripartenza che può far andar bene le cose oppure riportarci in periodi bui. I comportamenti individuali sono determinanti non solo per noi stessi ma perché hanno conseguenze sulla vita degli altri. Dobbiamo recuperare il senso della collettività e l’auspicio è che questo rimanga, anche quando il virus avrà smesso di farci paura. Personalmente ho qualche riserva.