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Racconti di guerra, esce il libro di Mario Rocchi

25 aprile 2020 | 11:26
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Racconti di guerra, esce il libro di Mario Rocchi

Una testimonianza della Resistenza a Lucca

Per il 25 aprile Tralerighe libri pubblica un libro prezioso e unico: Racconti di guerra. Lucca via dei Borghi 1944 di Mario Rocchi. L’autore, bambino durante la Seconda guerra mondiale, racconta i fatti accaduti a Lucca tra il 1940 e il 1944. In ventiquattro racconti Rocchi fa rivivere al lettore il fascismo lucchese, le privazioni, la scuola elementare Giovanni Pascoli in piazza della colonna mozza, la paura, le sirene per gli allarmi dei bombardamenti aerei, la grande retata compiuta dai nazisti e dai fascisti nel centro storico nell’agosto del 1944 con l’arresto e la deportazione di decine di civili.

Ma c’è anche spazio – come dicevamo – per l’alunno Mario Rocchi, bambino alla scuola elementare “Pascoli”, con il maestro affamato e segretamente antifascista, la forzata e odiata visita all’ospedale in Galli Tassi per portare i doni ai feriti di guerra e le dimostrazioni di valore fascista come la scenetta in costume con i bambini travestiti da Dubat, omaggiando con la M il Duce.

Tra ricordi di canzoni di guerra – come quella del colonnello di Giarabub -, si giunge alla Liberazione con i partigiani in armi e la morte di un patriota ucciso dai tedeschi in ritirata. Proprio di fronte al “buco novo”, mentre si cercava di liberare la città. L’arrivo degli americani segna un cambiamento per Lucca, con le “segnorine”, la Militar Police, le jeep e il viaggio verso il Piemonte con i pantaloni corti che lo facevano sembrare più piccolo, ma già Mario si sentiva grande e pronto a vivere la vita.

Tralerighe con questo libro omaggia il giornalista Mario Rocchi e via dei Borghi, un quartiere popolare ricco di storia e storie.

Ma leggiamo dal libro: “La finestra era il posto preferito per la conversazione. Dalla parte degli orti o meglio da quella della strada, si svolgeva per buona parte della giornata un continuo parlare che, in tempo di guerra, durava fino a buio, quando non si poteva tenere la luce accesa e, quando si accendeva, bisognava chiudere le finestre e gli scuri, come si chiamavano, cioè le imposte. Non doveva filtrare neanche un raggio di luce. Si pensi che persino le biciclette adottavano l’oscuramento, perché così si chiamava, applicando al fanale anteriore una carta nera con appena un ridotto rettangolo libero che lasciava filtrare un piccolissimo fascio di luce. Così, nelle strade buie, si scorgevano quasi dei fantasmi, pochi, che penetravano l’oscurità della notte.  Erano le biciclette. Il giorno comunque, finita la scuola (quella di una volta con le bacchettate della maestra o del maestro sulle mani a chi si comportava male), la finestra era il luogo preferito per fare conversazione. E se per caso qualcuno ritardava all’appello, veniva richiamato dal compagno con un particolare fischio che voleva dire che qualcuno l’attendeva. Quando i genitori lo permettevano, il ritrovo era sulle scale, o meglio nel mio pianerottolo che offriva possibilità di gioco fisico come la gara a chi faceva prima a montare quattro rampe di scale, oppure di abilità, come il filetto o il sassetto, tutti giochi di cui si è perso perfino il ricordo. Il sassetto, per esempio, consisteva nel gettare nell’aria cinque sassi tondi, pararli con il dorso di una mano, lasciarne cadere quattro e, con quello che era rimasto sulle dita, cogliere con solo il pollice e un altro dito, quelli che erano in terra senza far cadere il sasso depositato sul dorso della mano”.