
“L’assemblea toscana, insieme ai rappresentanti delle istituzioni politiche, civili e militari, si stringe attorno a chi ha vissuto la tragedia delle foibe, a tutti coloro che hanno perso la vita e a quanti sono stati costretti ad abbandonare le loro terre”. Così il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani, aprendo la seduta solenne, dedicata al Giorno del ricordo.
“Sarà nostro impegno non solo tenere alta la memoria di quei tragici eventi, ma anche far emergere la verità dalle nebbie della storia – ha continuato – perché ciò che è accaduto non avvenga mai più”. Da qui il riferimento alla legge del 30 marzo 2004, istitutiva del Giorno del ricordo, per conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati, nel secondo dopoguerra, e della più complessa vicenda del confine orientale. “Oggi abbiamo tra noi una testimone della storia, la signora Adriana Navicello, che riuscì a rifugiarsi nella nostra città avendo sposato un ufficiale fiorentino – ha raccontato il presidente – vide sterminata gran parte della propria famiglia ma si salvò scappando, incinta di otto mesi del suo primo figlio”. “Questa bella e coraggiosa signora – ha sottolineato il presidente – che ha sempre rifiutato la platea, è simbolo di questa importante giornata, quindi anche monito e invito a parlare della tragedia delle foibe, vicenda per anni non sufficientemente considerata, ma che sta emergendo sempre più”. “La coscienza collettiva del popolo italiano sta portando avanti il ricordo – ha affermato – lo testimoniamo i presenti in questa aula, che ringrazio, ma anche tutti coloro che hanno partecipato alla cerimonia al cimitero di Trespiano, dove sono sepolti alcuni esuli”. “In un momento in cui la storia si evolve e invita alla partecipazione e alla solidarietà”, Giani ha concluso citando Dante, che parla di Pola come “ultimo lembo d’Italia, un lembo della nostra cultura e identità”.
“L’istituzione per legge del Giorno del Ricordo è un atto di giustizia dovuto alle vittime e ai loro congiunti, privati di quel riconoscimento pubblico, che è il segno tangibile dell’attenzione del paese verso le tragedie del proprio passato”. Lo ha sottolineato Monica Barni, vicepresidente della giunta regionale, nel suo intervento nella seduta solenne. “E’ un riconoscimento al dolore e alle sofferenze – ha aggiunto – di quanti persero la vita o videro tagliate le proprie radici, sradicati dalle proprie case e dal proprio mondo”.
La vicepresidente ha ricordato che la Regione Toscana ha in grande considerazione la memoria pubblica delle tragiche vicende del Novecento, “nella certezza che si tratta di un investimento necessario dal punto di vista civile e culturale”. “La conoscenza del passato – ha affermato Barni – è un incentivo all’impegno nella vita pubblica soprattutto per i nostri giovani, è quindi un contributo alla crescita della democrazia”. “Recuperare e fare emergere la memoria di quelle vicende drammatiche – ha aggiunto – è dunque un impegno non solo di una legge dello Stato, ma prima ancora un imperativo morale della coscienza e un dovere di onestà politica, che dobbiamo assumere”. In questa prospettiva, Barni ha rilevato che al fondo di questi drammi vi sia “l’onda lunga” della distruzione del patrimonio europeo, costruito intorno alla diversità di lingue, culture e tradizioni, che è stato immolato all’ideologia del nazionalismo esclusivo. “Il nostro paese si è dato una Costituzione – ha affermato la vicepresidente – che delinea i compiti di uno Stato impegnato nella difesa e nell’espansione dei diritti della persona, diritti che sono intangibili e che rappresentano la garanzia sostanziale che il passato non tornerà”.
A suo giudizio, chiuso il capitolo delle ideologie, i giovani di tutta Europa possono ripartire dal tema della speranza, intesa non solo come spinta verso un mondo migliore, ma come “capacità di fare i conti con il presente e con il passato, altrimenti la nostra tensione verso il futuro è vuota e nel vuoto non c’è spazio né per il bene, né per il meglio”.
Il Consiglio solenne si è chiuso con l’intervento del giornalista Gian Antonio Micalessin, editorialista del Giornale, collaboratore del Foglio, esperto di questioni internazionali ed autore di molti reportage di guerra, che ha portato un contributo legato a ricordi ed emozioni personali, essendo lui nato a Trieste, una quindicina d’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, dove la sua famiglia era giunta da Pirano e da Rovigno, centri istriani oggi rispettivamente in Slovenia e in Croazia. Subito dopo il presidente del Consiglio toscano, Eugenio Giani, ha donato un mazzo di fiori alla signora Adriana Navicello, superstite delle foibe, oggi in aula, che in quei tragici anni vide sterminata gran parte della sua famiglia.
Micalessin, per far comprendere cosa significò il passaggio alla Jugoslavia dei territori italiani dell’Istria e della Dalmazia, ha ricordato il gesto di Maria Pasquinelli, fiorentina, che il 10 febbraio 1947, esattamente 69 anni fa, uccise il generale Robert de Winton, massima autorità alleata a Pola, come atto di protesta per l’assegnazione della stessa città alla Jugoslavia. Dopo l’arresto, le fu trovato questo biglietto: “Mi ribello, col fermo proposito di colpire a morte chi ha la sventura di rappresentarli, ai Quattro Grandi i quali, alla Conferenza di Parigi, in oltraggio ai sensi di giustizia, di umanità e di saggezza politica, hanno deciso di strappare ancora una volta dal grembo materno le terre più sacre d’Italia, condannandole o agli esperimenti di una novella Danzica o con la più fredda consapevolezza, che è correità, al giogo jugoslavo, sinonimo per la nostra gente indomabilmente italiana, di morte in foiba, di deportazioni, di esilio”. Ha affermato Micalessin: “Nella rivendicazione del suo pur esecrabile gesto, che fu un atto di terrorismo, ci sono tutte le ragioni degli italiani che vivevano su quella sponda dell’Adriatico”.
Secondo Micalessin quanto accadde nell’immediato secondo dopoguerra in Venezia Giulia e in Dalmazia “è l’equivalente di quanto vediamo accadere oggi a Mossul o a Raqqa o nei territori occupati dallo Stato islamico”, perché “è l’orrore che s’impadronisce della vita quotidiana” ed è “la discriminazione su base etnica, religiosa e politica, che giustifica atti tremendi che vanno al di là dell’immaginazione”. Ha continuato il giornalista: “Mentre in Europa si festeggiava la fine della guerra, da noi tutto cominciava e la tragedia diventava il filo conduttore della quotidianità”.
“È incredibile che tutto questo sia stato dimenticato o mal ricordato”, ha aggiunto Micalessin, “eppure ciò è quanto è realmente accaduto e in parte accade ancora oggi”. E parole dure il giornalista triestino ha avuto per Palmiro Togliatti, leader del Pci tra la fine degli anni Quaranta ed i primi anni Sessanta, ritenuto tra i responsabili della mancata emersione, dopo la guerra, della verità sulle ondate epurative jugoslave.
“Nelle foibe non finirono tuttavia solo i fascisti o gli avversari politici, ma anche i partigiani bianchi e perfino quei comunisti che, ad esempio, non erano d’accordo con le epurazioni”, ha aggiunto Micalessin. “E al tempo stesso non tutti gli jugoslavi furono contro gli italiani. Lo zio di mamma, ad esempio, fu salvato dal suo vicino di casa, partigiano comunista, che garantì per lui e per il fatto che era una brava persona. Era stato arrestato perché indossava la divisa da ferroviere. Ma la grande maggioranza delle persone che furono prese quel giorno furono buttate nelle foibe, con morte certa, e molti di loro non erano fascisti”.