Don Franco Cerri in Regione per il giorno del ricordo

12 febbraio 2019 | 13:51
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Don Franco Cerri in Regione per il giorno del ricordo

Preceduto dal suono delle chiarine, dinanzi alla platea di autorità civili e militari, si è celebrato oggi (12 febbraio) a Firenze la seduta solenne del consiglio regionale della Toscana dedicata al giorno del ricordo. Un’occasione per ricordare il periodo drammatico per la popolazione italiana, che nell’immediato dopo guerra affrontò l’esodo che coinvolse circa 350mila persone. Alla seduta, presieduta da Eugenio Giani, era presente anche il parroco di Lunata don Franco Cerri, esule di Zara.

Giani ha citato gli impegni che la Regione ha tenuto in questi giorni per celebrare la Giornata del ricordo, tra cui la presenza istituzionale a Trespiano e anche in altre città, il 10 febbraio scorso.
“Il silenzio non era più giustificabile – ha detto invece il presidente della Regione Enrico Rossi -. Di questa dimenticanza oggi, noi non dobbiamo tacere, assumendoci le nostre responsabilità per avere negato, sminuito, l’orrore contro l’umanità rappresentato dalle foibe e poi il dolore dell’odissea dell’esodo”.
“Quello istituito dal parlamento nel 2004 è un riconoscimento dovuto alle vittime e ai loro congiunti – prosegue Rossi – un segno di attenzione che il nostro paese ha mostrato verso le tragedie del nostro recente passato. Un riconoscimento che in precedenza era mancato. La tragedia era caduta nell’oblio, le parti politiche, per via delle logiche legate alla guerra fredda, tennero celata una vicenda che continuava a rappresentare una ferita profonda nel nostro paese”.
Rossi ha ricordato le “parole feroci nei confronti degli esuli istriani e dalmati”, scritte da Palmiro Togliatti nel 1946 sull’Unità e ricorda “anche le eccezioni, che però ci furono, come a Livorno, dove mille profughi furono accolti nella zona di Calambrone e nel quartiere Sorgenti. Il Comune e i carabinieri costituirono un fondo per l’acquisto di libri e altri materiali scolastici per aiutare i ragazzi”.
“La pace e i rapporti amichevoli che vogliamo costruire sempre più con la Slovenia e la Croazia non possono prescindere dal riconoscimento delle verità – aggiunge il presidente – Un riconoscimento che dobbiamo farci reciprocamente. La pace si costruisce sulla verità e la riconciliazione non può fare a meno della verità. Si tratta ora di non regredire e di continuare, senza negazionismo, riconoscendo la tragedia provocata dal movimento partigiano titino-jugoslavio, le foibe, le esecuzioni sommarie, l’orrore. Una sconvolgente stagione di morti, con migliaia di civili barbaramente torturati e uccisi, in un clima e con fatti che assunsero il carattere della pulizia etnica”.
“Oggi – conclude Rossi – queste riflessioni hanno una valenza urgente, per evitare che fantasmi del passato possano riemergere. Solo un rinnovato progetto europeo, sostanziato di valori e capace di risolvere i problemi, può affrontare i nodi e lenire i dolori che la memoria del novecento ci consegna, evitando, come un’assicurazione sul futuro, possibili disastri”.
La storia di don Franco Cerri ha chiuso gli interventi della seduta solenne portando nel consesso istituzionale la voce “di chi c’era”. Don Cerri ha reso la testimonianza di una famiglia raccontata nel susseguirsi drammatico dei giorni del ’44, quando cominciarono i rastrellamenti degli italiani a Zara, sia militari che civili e che non dimentica il dolore per quel padre ventinovenne ucciso con altri 50. “Furono fatti letteralmente sparire, dopo aver distrutto i loro documenti, per cui di loro non c’è traccia. Come se non fossero mai esistiti, come tante vittime di uccisioni e rastrellamenti. “Poi venne l’obbligo di optare o per la cittadinanza slava o per quella italiana: chi sceglieva di rimanere italiano doveva andarsene in Italia, lasciando eventuali proprietà; chi sceglieva di restare, doveva dimenticare di essere italiano”.
La storia di don Franco continua in Italia, a Gorizia, dove arriva dopo aver atteso per quattro anni il permesso di poter partire. E poi in Toscana, a Lucca, nel campo profughi: “Oltre mille persone, sistemate in stanzoni con altre famiglie, divise da coperte, con gente disperata, che si era illusa di un altro tipo di accoglienza. Ma la parlata dialettale, i cognomi diversi, portavano la diffidenza della popolazione locale, e anzi c’era perfino chi aveva paura. Eravamo come degli estranei per i lucchesi, pur essendo italiani a tutti gli effetti”.
Nella testimonianza di don Cerri anche “l’amarezza che per sessant’anni lo stato italiano ha ignorato le vittime delle foibe e l’esodo di 300mila italiani dall’Istria, Fiume e Dalmazia, a causa del comunismo jugoslavo”.
“È con grande sofferenza che si ricordano certe cose – ha concluso – se pure nella speranza che non si ripetano mai più. Ma l’aria che tira non mi sembra buona”. 
Prima di don Cerri, Davide Rossi vicepresidente della Federazione delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, ha rivolto il proprio ringraziamento alla Regione Toscana e, in particolare, “al consigliere Jacopo Alberti, che mi ha invitato”. 
“Il ricordo non può esserci fino a quando non vi è effettiva conoscenza dei fatti e gli italiani di oggi sanno ancora poco o nulla di quelle vicende di tanti italiani che hanno lasciato quelle terre proprio per rimanere italiani e di una pulizia etnica che riguardava indistintamente maschi e femmine, giovani e adulti, borghesi e operai, genitori e figli”.
Il vicepresidente delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati ritiene doveroso aprire “un dialogo franco con la storiografia, nel quale si menzionino i misfatti del cosiddetto fascismo di confine, evitando però di fare il gioco di quanti puntano solamente su quel periodo per giustificare quanto accadde dopo”. 
“Non servono – aggiunge Davide Rossi – le leggi bavaglio, con aggravanti penali di chi sostiene teorie aberranti. Non si ottiene niente a zittire chi propone versioni alternative, alle stupidaggini si risponde con la ragione, con le argomentazioni, analisi serie e lavoro di ricerca”.
Occorre valorizzare i “segni di un’Italia che sta prendendo consapevolezza ed è necessario tornare a considerare questi temi come argomenti dell’agenda politica e non di una mera storia locale di confine da relegare al massimo nel mese di febbraio di ogni anno”. 
“Oggi, a settant’anni di distanza, consapevoli delle nostre ragioni, fieri del nostro passato, chiediamo il rispetto delle istituzioni, l’adempimento degli accordi presi e la consapevolezza per non essere dimenticati” dice ancora Rossi. E ricorda “l’incredibile vicenda dei cosiddetti beni abbandonati: l’Italia si impegnava a pagare le riparazioni di guerra con le proprietà personali dei propri cittadini e la promessa di risarcirli in un secondo momento. Promessa mai mantenuta che disonora una nazione: le soluzioni ci sono, è una questione di volontà”.