Solitudine: compagna silenziosa o nemica invisibile?

Capita a tutti, prima o poi, di sentirsi soli. Anche se intorno abbiamo famiglia, colleghi, amici. A volte, la solitudine è quel momento che scegliamo per stare un po’ per conto nostro. Altre volte, è una presenza scomoda che si insinua piano, e ci lascia con un nodo alla gola difficile da spiegare.
C’è una differenza enorme tra lo stare soli e il sentirsi soli. E questa differenza può cambiare molto, anche nel modo in cui stiamo con noi stessi e con gli altri.
Quando la solitudine fa bene
Ci sono momenti in cui più che compagnia, desideriamo spazio mentale. Non per allontanarci dagli altri, ma per ritrovare un senso di presenza dentro di noi. Una pausa vera, fatta di assenza di stimoli, di parole non necessarie, di gesti semplici come camminare senza uno scopo preciso. In questi spazi sospesi, la solitudine può diventare una condizione fertile: non isolamento, ma occasione per ascoltarci con più sincerità, per lasciar affiorare pensieri che spesso rimandiamo, per respirare senza urgenza. È in quel silenzio che, a volte, ci riconosciamo meglio.
Viviamo in un tempo che ci chiede continuamente di essere produttivi, performanti, sempre sul pezzo. E anche quando il corpo si ferma, la mente continua a correre. Ma nessuno può vivere bene se non si concede il tempo per rallentare. Questo correre costante consuma energia, e ci allontana dalle cose che ci fanno bene davvero: leggere qualcosa che ci appassiona, ascoltare musica, guardare il cielo, fare due passi senza motivo.
A volte, nutrire la mente vuol dire proprio questo: togliere pressione, smettere per un attimo di inseguire risultati, e permettersi di esistere anche senza “dover dimostrare qualcosa”.
Quando invece diventa pesante
Ma c’è anche un altro tipo di solitudine. Quella che non cerchi, ma ti trovi addosso. Quando ti senti fuori posto, anche in mezzo alla gente. Quando parli, ma hai l’impressione che nessuno ascolti davvero. Quando tutto sembra normale, ma dentro ti manca qualcosa.
In questi casi, la solitudine non è più un momento di quiete. È una sensazione continua, che pesa. E spesso ci si vergogna anche a parlarne. Ma succede a più persone di quanto si pensi. E no, non è una questione di debolezza.
Spesso nasce da un senso di disorientamento. Non vedere prospettive davanti a sé, non sentirsi davvero padroni della propria vita, rende difficile perfino capire cosa si desidera. Quando ogni giorno sembra solo un altro “da mandare giù”, è normale sentirsi inquieti, stanchi, svuotati. E in questo stato d’animo, è difficile anche godersi la compagnia degli altri. Perché quando dentro si sta male, anche le relazioni sembrano un peso in più, un ruolo da recitare.
Non si riesce a stare davvero con gli altri, perché si fa fatica a stare prima di tutto con sé stessi. E allora si preferisce evitare, chiudersi, tirare avanti. Ma tutto questo, nel tempo, isola ancora di più, anche da chi ci vuole bene.
Oggi, dalle relazioni non cerchiamo più solo compagnia: cerchiamo ascolto, comprensione, autenticità. Vogliamo sentirci visti davvero, senza doverci spiegare troppo. Desideriamo uno spazio dove poter abbassare le difese e sentirci accolti per come siamo, non per quello che facciamo.
Ma questo bisogno così profondo di connessione può facilmente trasformarsi in delusione, quando dall’altra parte non troviamo la risposta che ci aspettiamo. A volte bastano poche esperienze negative – sentirsi giudicati, trascurati, fraintesi – per iniziare a ritirarsi emotivamente, anche senza volerlo.
Secondo diversi studi (Stern, Ugazio, Bowlby), quando non otteniamo quel tipo di rispecchiamento che ci fa sentire riconosciuti, molti di noi reagiscono in due modi: o alzano muri per non soffrire più, oppure si adattano troppo, cercando di essere sempre all’altezza delle aspettative altrui, fino a perdersi. In entrambi i casi, però, il risultato è lo stesso: ci si sente sempre più soli. Non per mancanza di persone, ma perché non ci si sente più liberi di essere se stessi dentro le relazioni.
E allora può succedere che si inizi ad allontanarsi da tutto ciò che richiede presenza emotiva: amicizie, coppia, famiglia. Perché se non possiamo essere autentici, stiamo con gli altri ma non stiamo davvero.
La solitudine relazionale e intima, in questi casi, viene vissuta con tristezza, senso di vuoto e insoddisfazione. E purtroppo, quando le relazioni ci hanno fatto più male che bene, può sembrare che stare da soli sia l’unica alternativa possibile. Così, molte persone finiscono in uno stato ibrido, difficile da decifrare: una solitudine che non si capisce più se sia scelta o subita. E anche questa incertezza contribuisce a far sentire ancora più confusi e incompresi.
Serve qualcuno con cui parlarne?
Non serve essere “da psicologo” per voler capire come si sta. Non è una questione da gente strana o particolarmente fragile. È una cosa umana. Capire quando una solitudine fa bene e quando invece sta diventando un campanello d’allarme, è un modo per volersi più bene.
Ci sono segnali che è utile ascoltare con attenzione: sentirsi spaesati, disorientati, confusi, avere la sensazione che niente abbia davvero senso, o che il tempo scorra senza lasciare tracce. Quando si accumulano difficoltà nel costruire o mantenere relazioni affettive e amicali, quando si è costantemente insoddisfatti, o si notano ripercussioni sul lavoro – tensioni con i colleghi, difficoltà a gestire lo stress, perdita di motivazione – potrebbe essere il momento di indagare se esiste un blocco emotivo o relazionale.
Se questa condizione persiste, e la solitudine diventa uno stato d’animo cronico, è utile chiedersi:
Sto scegliendo davvero di stare solo, o ci sono delle ferite non elaborate che mi spingono ad allontanarmi? In questi casi, un supporto psicologico può aiutare a distinguere ciò che protegge da ciò che limita, e a recuperare fiducia nei legami.
Coltivare uno spazio personale: da dove partire
Anche senza iniziare subito un percorso terapeutico, si può cominciare a creare piccoli spazi rigenerativi. Prendersi cura di sé non significa fare grandi cose, ma rallentare, ascoltarsi, dare valore a ciò che nutre davvero.
La letteratura scientifica suggerisce pratiche semplici ma efficaci:
- dedicarsi ad attività che stimolano la creatività (scrittura, disegno, musica)
- stare a contatto con la natura
- praticare la consapevolezza (mindfulness, respiro, meditazione breve)
- curare il corpo con movimento leggero e costante (anche una passeggiata quotidiana ha effetti benefici)
- ridurre l’esposizione a stimoli stressanti come notifiche, schermi, notizie ansiogene
Secondo Daniel Siegel, quando il cervello ha uno “spazio sicuro” in cui può fermarsi, anche solo per pochi minuti al giorno, può recuperare energia, elaborare emozioni e tornare a percepire connessioni. È da questi micro-momenti che nasce una nuova disponibilità alla vita e agli altri.
In conclusione
La solitudine può essere una buona compagna o una presenza scomoda. Dipende da come la viviamo e da quanto ci permette di stare bene davvero. Se ti riconosci in alcune di queste parole, sappi che non sei l’unico. E che, anche se non ami parlare di queste cose, potresti scoprire che farlo ti fa sentire meno solo.
Paola Fusco
Psicologa a orientamento sistemico relazionale e psicoterapeuta